Storie di eccellenza

Avete mai assaggiato l’hamburger di Goji? I mille usi delle bacche supervitaminiche (e le migliori sono italiane)

di Maria Teresa Manuelli

3' di lettura

Italiani primi consumatori europei di Goji: il 16% contro meno del 6% di Germania, Gran Bretagna e Spagna. Sette italiani su dieci (68%) sono convinti che questa bacca possa essere utilizzata a scopo curativo. Lo dicono gli ultimi dati della Global Survey di Nielsen “Health/Wellness: food as medicine” condotta su un campione di 30mila individui in 63 Paesi, tra i quali l'Italia, con lo scopo di analizzare l'evoluzione degli stili alimentari e cogliere nuovi trend in anticipo.
Ma l'Italia questo trend lo ha colto da tempo: non tutti sanno che le produzioni nostrane di bacche di Goji si sono infatti sviluppate già quasi una decina di anni fa. Dal Veneto alla Calabria, sono diverse le realtà italiane dedite a questa coltivazione. Anche perché i prodotti provenienti dall'oriente spesso vengono rifiutati o fermati alla dogana per l'elevata presenza di residui di pesticidi e sostanze nocive.

In Italia la produzione media per ettaro va dai 40 ai 60 quintali. Una coltivazione redditizia che si ripaga entro un anno circa, dal momento che il prodotto fresco sul mercato nostrano arriva a quotazioni tra i 20 e i 40 euro al kg.
Al momento la situazione italiana è a macchia di leopardo e due consorzi (Consorzio Goji Italia e la Rete di imprese Lykion) raggruppano le piccole attività dedite al Lycium. La più grande realtà italiana ed europea si trova, però, in Calabria. Più precisamente nella piana di Sibari, dove si coltivano 60mila piante di bacche di Goji, con 50 tonnellate di raccolto previsto. È l'azienda Favella, guidata da Nicola Rizzo.“Stimiamo che le quantità da noi coltivate – precisa Rizzo – rappresentano almeno il 50% della produzione e commercializzazione italiana e probabilmente europea. Per noi è stata una sfida alla quale abbiamo sempre creduto e per la quale stiamo lavorando sempre più assiduamente. Raggiungere una massa critica è stato necessario per avere credibilità presso i distributori nazionali e gli importatori esteri. Contiamo in tre anni di raggiungere i 4 milioni di euro solo con questa coltura”. Rizzo, con il figlio, è partito con 20mila piante tre anni fa, dopo quattro di studi per trovare la qualità migliore, ovvero che producesse un frutto più grande e più sano. Le bacche vengono vendute fresche (30%) o trasformate (il restante 70%). “Il Goji, oltretutto, è un frutto versatile, si presta a diverse trasformazioni: non solo succhi e confetture, abbiamo anche il ketchup di Goji, gli snack e i sughi. Quest'anno lanceremo il panettone alle bacche di Goji, i grissini e un hamburger vegano”.

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La piana di Sibari è particolarmente adatta alla coltivazione per il clima caldo, tanto che il Goji si raccoglie per sei mesi all'anno. Rigorosamente a mano: per un kg di prodotto serve circa un'ora e mezza di lavoro. Attività svolta soprattutto dalle donne. “La coltivazione di Goji – spiega Rizzo – ha risvolti positivi anche sull'occupazione: negli ultimi sette anni abbiamo duplicato il numero degli addetti assunti. Lo sviluppo di colture ad alto valore rappresenta un potenziale enorme per il Mezzogiorno”.
Il Goji, in effetti, è una vera panacea: multivitaminico naturale, sostegno al sistema immunitario, regolazione della glicemia, è notevolmente ricco di carotenoidi quali betacarotene, zeaxantina, luteina e licopene, preziosi per la protezione della vista.
Dalle analisi di laboratori sembra inoltre che il Goji italiano sia ancora più ricco di proprietà benefiche. Sottoposte ad analisi da parte dell'Università di Perugia, le bacche della nostra Penisola sono risultate migliori, dal punto di vista nutrizionale e biologico, delle cugine asiatiche: quelle calabresi, in particolare, possiedono quasi il doppio di carotenoidi. Anche le foglie della pianta sono utili, perché ricche di acido gallico, un potente antiossidante, si prestano alla trasformazione in farine o tisane.
Il gruppo aziendale che fa riferimento alla famiglia Rizzo sotto il cappello di Favella Group comprende molteplici realtà che si sono diversificate nel corso degli anni. Nata negli Anni 30 come azienda pastorale, attualmente possiede 700 bufale con una produzione giornaliera di 18 quintali di latte lavorati nel caseificio Bufavella per la produzione di mozzarelle, formaggi, pizze, yogurt e altri derivati. Nel 2011 Favella costruisce le prime serre fotovoltaiche, alle quali viene affiancato anche un impianto di biogas. Sotto le serre vengono coltivate erbe aromatiche, funghi e verdure in buona parte trasformate in sottoli, sughi pronti e altri prodotti agroalimentari all'interno dello stabilimento di trasformazione Torre Saracena appartenente al gruppo aziendale. Per un giro d'affari totale di 9 milioni di euro. L'azienda ha anche aperto un ristorante-vetrina a Roma, il Buff, dove sotto la guida di Fabio Trovato si cucina solo con i 150 prodotti aziendali.

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