Capricorn e le cessioni, la strategia che manca
di Laura Serafini
2' di lettura
Le privatizzazioni non sono certo una priorità in una campagna elettorale in cui il tema dell’immigrazione monopolizza il dibattito politico. Eppure le dismissioni richiamano la questione del pesante debito pubblico nazionale, 2.300 miliardi (mille miliardi in più solo negli ultimi 15 anni), che è reso insostenibile da una insufficiente crescita del Pil. Questo contribuisce a rendere il paese più povero ed esposto alle incursioni dei capitali esteri sulle realtà imprenditoriali che funzionano. È forse per questo motivo che nei programmi elettorali, nonostante l’esigenza di fare proclami e annunci a effetto, trapela una consapevolezza più marcata rispetto alle scelte da fare in merito alle partecipazioni pubbliche in società, quotate o meno, e asset immobiliari. Ridurre il debito pubblico con i proventi da cessioni è una battaglia disperata, a meno che questi fondi non servano solo come buffer per stabilizzare una strategia che punta sulla crescita del Pil, il contenimento del deficit e la riduzione del costo del debito stesso. Nei programmi e nelle dichiarazioni si fa strada, invece, il problema del vuoto lasciato dalla rinuncia dei recenti governi - sempre più impegnati a gestire le emergenze contingenti dei conti pubblici - a pianificare una politica industriale, da declinare anche attraverso una lungimirante gestione delle partecipazioni pubbliche. Il leader del Pd, Matteo Renzi, ha rilanciato il progetto Capricorn, che passa attraverso lo spostamento delle partecipazioni quotate possedute dal ministero dell’Economia alla Cdp, con l’obiettivo di rafforzare patrimonialmente la società e darle maggiore potenza finanziaria di intervento nell’economia. Poi si può discutere se aprire il capitale della Cassa a «capitali pazienti» per restituire risorse al ministero, per almeno 20 miliardi. Il progetto raccoglie consensi anche a sinistra del Pd, con Stefano Fassina di Liberi e uguali che condivide strategie di intervento con logica industriale (ma non l’apertura del capitale della Cassa). Basti pensare soltanto alla possibilità che Cdp avrebbe (e che lo Stato non ha) di sostenere con aumenti di capitale Eni o Enel o altre partecipate che dovessero puntare a una crescita dimensionale all’estero. Oppure al caso Leonardo, che non è più un problema di management adeguato o meno (anche se si rincorrono i rumors di un’uscita dell’ad Alessandro Profumo): secondo alcuni servirebbe il delisting della società, per concentrare il business sui pochi settori redditizi e magari aggregarla con qualche altra realtà. A proposito di politica industriale Armando Siri della Lega osserva: «Non è possibile che ci siano aziende pubbliche come Enel, ad esempio, che ritengono di dire al governo quale strategia energetica nazionale adottare. La programmazione deve tornare a chi governa». Anche M5S è sensibile sul tema e ragiona su una nuova agenzia per investire nei settori che possano spingere la crescita del Pil, recuperando i fondi tra le pieghe dell’inefficienza della spesa pubblica. Se si vuole evitare di lasciare l’Italia nel limbo di un logorante galleggiamento, un cambio di passo da parte del nuovo governo su questi temi sarà indispensabile.
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