Enzo Bettiza, «transfuga» dalla penna smagliante
di Raffaele Liucci
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Enzo Bettiza, scomparso ieri a novant’anni, non è stato solo un fuoriclasse del giornalismo, ma anche uno dei più perspicui testimoni del Novecento, come dimostra la sua densissima biografia. Poliglotta, coltissimo, nato nel ’27 a Spalato, da padre italiano, industriale del cemento, e da madre montenegrina, nel dopoguerra si rifugiò in Italia. Per un anno e mezzo circa, sino alle elezioni del 18 aprile ’48, militò nel Partito comunista («Mi affascinava il male»), per poi approdare su sponde liberali (nel ’76 verrà eletto senatore per il Pli, di cui sarà anche deputato europeo). Dopo una prima esperienza con la mondadoriana Epoca , fu assunto dalla Stampa di Giulio De Benedetti nel ’57, dove lavorò come corrispondente da Vienna e da Mosca fino al ’64, anno in cui passò al Corriere . Per il quotidiano milanese “coprì” soprattutto i Paesi dell’Europa dell’Est, diventandone uno degli esperti più accreditati, dalla scrittura sempre smagliante.
Nel ’74, la svolta decisiva della sua carriera: insieme a Montanelli e molti altri transfughi di via Solferino, Bettiza fondò il Giornale, in aperta polemica con il Corriere di Piero Ottone, giudicato troppo arrendevole di fronte alla montante - secondo loro - «marea rossa». Sotto la supervisione di Bettiza, la sezione culturale del Giornale rimarrà fra le più stimolanti del tempo. Vi scrissero fior di intellettuali, da Rosario Romeo a Nicola Abbagnano, François Fejto e Geno Pampaloni. Come ha osservato Nello Ajello, intorno a quella “terza pagina” ruotava «tutto un ambiente di uomini di cultura dalle insospettabili radici democratiche, sospinti verso posizioni di centro, se non di destra, da una motivata allergia al sinistrese e alle sue pose spesso concettualmente sommarie e formalmente analfabetiche». Persino i comunisti più aperti, come Giorgio Napolitano, la leggevano con interesse, per le informazioni di prima mano sui fermenti democratici nei Paesi satelliti di Mosca.
Braccio destro di Montanelli, Bettiza nel 1983 ruppe clamorosamente con lui, abbandonando il suo quotidiano. Motivo del contendere: Bettino Craxi. Secondo Bettiza, il nuovo corso di Craxi avrebbe potuto conciliare «il meglio del pensiero liberale di sinistra con lo spirito migliore del socialismo» (il cosiddetto «lib-lab»). Invece Montanelli restò sempre piuttosto diffidente verso il leader socialista.
In parallelo alla carriera giornalistica, Bettiza rivelò sin dall’inizio una felicissima vena narrativa (La campagna elettorale, 1953, in cui fece i conti con il proprio passato comunista; Il fantasma di Trieste, 1958), subito apprezzata da Guido Piovene, che divenne il suo mentore e “protettore”. Nel 1996, Bettiza rievocherà le proprie radici mitteleuropee in uno straordinario affresco autobiografico, Esilio (Mondadori, come buona parte dei suoi lavori). Quel libro gli fruttò il premio Campiello, anche se la spocchiosa società letteraria non gli concesse mai la patente di vero scrittore, come già era successo con Buzzati. Giocarono, in questo rifiuto, il mai sopito anticomunismo di Bettiza e forse anche il carattere spigoloso. Come egli stesso riconobbe: «Gli umori asprigni, secchi, corrosivi, che filtrano dalle crepature della contrada rocciosa e bella dove sono nato, mi hanno talvolta preso la mano».
La sua vocazione caustica rifulge in altri frammenti autobiografici quali L’ombra rossa (1998) e Mostri sacri (1999), ricchi di affascinanti ritratti dei principali politici e intellettuali degli anni Settanta. Ma forse l’opera migliore di Bettiza resta Via Solferino (1982), in cui narra la «vita del Corriere della Sera dal 1964 al 1974». Non è necessario condividere tutti i suoi feroci giudizi per riconoscere che si tratta probabilmente del più brillante memoir mai scritto da un giornalista italiano.
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