GroKo e crescita avvicinano il nuovo patto sull’euro
di Adriana Cerretelli
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L’anno scorso l’eurozona ha chiuso con una crescita del 2,5%, disoccupazione ai minimi da 9 anni (8,7%) e aumento dell’occupazione di 7,5 milioni di unità in meno di cinque anni, ha ricordato il presidente della Bce Mario Draghi davanti all’europarlamento. La produzione economica, manifattura e servizi, in gennaio ha toccato il record degli ultimi 11 anni.
Anche se i rischi non mancano, l’economia va molto meglio delle attese, creando le condizioni favorevoli per riforme e rafforzamento dell’integrazione nell’euro. Se l’intendenza politica dovesse seguire, e lo farà se come sembra in Germania sarebbe ormai a portata di mano l’accordo sulla grande coalizione, il nuovo patto sulla moneta unica potrebbe essere siglato addirittura già in giugno. Non a caso oggi il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni sarà a Berlino per incontrare il cancelliere Angela Merkel nel quadro di un vertice bilaterale fondamentale per due ragioni: evitare che l’Italia si ritrovi di fatto relegata ai margini delle ritrovate (sia pure parziali) sintonie franco-tedesche e completare un’azione diplomatica mirata ad agganciare la Francia di Emmanuel Macron con il futuro Trattato del Quirinale che, nelle intenzioni, dovrebbe essere il pendant di quello franco-tedesco dell’Eliseo appena potenziato da una risoluzione votata dai parlamenti dei due Paesi.
La crisi politica in Germania si protrae da oltre quattro mesi costringendo l’Europa in una palude di incertezze e di spaesamento. Il che non ha però impedito a Parigi e Berlino di continuare a lavorare dietro le quinte, preparare il salto di qualità del sistema eurozona per essere pronti a farlo scattare non appena la situazione si sarà decongestionata. Sono davvero ormai maturi i tempi e per quale tipo di salto? Tra il discorso alla Sorbona di Macron il 26 settembre, due giorni dopo le elezioni tedesche, e la bozza di accordo del 12 gennaio per avviare i negoziati della grande coalizione, le posizioni di Parigi e Berlino sulla riforma restano lontane dalla convergenza perfetta ma si sono decisamente avvicinate sulla spinta della Spd di Martin Schulz.
Abbattuto il tabù tedesco sulla solidarietà finanziaria tra partner per fugare l’incubo della cosiddetta Unione dei trasferimenti dai Paesi ricchi e virtuosi a quelli poveri e viziosi, il documento riconosce la necessità di un bilancio dell’eurozona per interventi anti-shock asimmetrici tipo crisi debitoria, sostegno alle riforme strutturali e aiuti alla convergenza sociale tra Stati membri: sia pure con un impegno finanziario in crescita graduale e accompagnato dal rafforzamento dei controlli sui bilanci nazionali, dal rafforzamento della lotta alla frode e all’evasione fiscale.
Altro tabù rimosso, l’accordo prevede la trasformazione dell’attuale Fondo Salvastati (Esm) in Fondo monetario europeo (Fme) sotto l’egida del diritto Ue e non più di un semplice patto intergovernativo, con il compito di erogare prestiti ai Paesi in difficoltà e favorirne la ristrutturazione dei debiti. Invece, niente ministro del Tesoro, né parlamento separato per l’eurozona. Però disponibilità ad aumentare il contributo tedesco al bilancio Ue dopo Brexit (il buco sarà di 6 miliardi): altra inversione a U dettata dall’urgenza di compattare l’Europa in balìa dei radicali cambiamenti in atto nel mondo globale.
Per l’Italia il frutto di questa convergenza franco-tedesca ha un sapore dolce-amaro: sollievo per il decollo del concetto di solidarietà, l’attenzione al sociale, maggiori investimenti nei bilanci comuni. Nessuna grazia invece ma controlli più severi sui Paesi in ritardo di modernizzazione, riforme, convergenza e conti pubblici sani, debito in testa. Come sempre niente filantropi in Europa, la solidarietà avrà un prezzo. E forse anche più alto di quello che si direbbe oggi. Non è infatti certo che alla fine l’accordo della grande coalizione si confermerà nella versione del 12 gennaio: ieri Schulz ha parlato di un budget per gli investimenti e di fine del rigore forzato nell’eurozona tacendo sui poteri dell’Esm/Fme.
In Germania intanto il gruppo del 30 consiglieri economici del Governo denuncia imprecisione di impegni e di destinazione del denaro comune. Otmar Issing, ex-capo economista della Bce, parla di «addio all’idea di Europa mirata alla stabilità». Il tutto mentre si mormora di un do ut des franco-tedesco come era successo del resto ai tempi di Maastricht e della nascita della moneta unica: alcune concessioni alla visione francese dell’unione economica e monetaria in cambio del recupero dell’ortodossia a Francoforte affidando a un tedesco, forse Jens Weidmann, la poltrona che fino a fine ottobre 2019 sarà di Draghi. Decisamente avrà molto da discutere Gentiloni a Berlino con Merkel: nel pieno di una campagna elettorale dall’esito incerto che preoccupa l’Europa, dovrà dare rassicurazioni e tentare di riceverne almeno altrettante. Missione quasi impossibile.
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