2019, un anno in cui il lavoro e non il reddito torni protagonista
di Vittorio Pelligra
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Omnia vincit amor (“tutto vince l'amore”) si legge in una famosa pagina delle Bucoliche virgiliane. Meno noti, forse, sono altri versi del poeta, che appaiono questa volta nelle Georgiche, e che similmente recitano “labor omnia vicit / improbus” (“tutto vince il duro lavoro”). Amore e lavoro, lavoro e amore che vincono tutto, ogni difficoltà, in una visione sacrale che Virgilio riprende da Esiodo e che traccia l'origine della necessità del lavoro nella punizione che Zeus volle dare agli uomini per i loro inganni.
Una punizione, certo, ma come spesso accade nei miti delle origini, una punizione salvifica. Solo con il lavoro, infatti c'è progresso. Lungi dal diventare una condanna, il “dono” del lavoro rappresenta una manifestazione della provvidenza, una vera e propria “teodicea”, come la definisce sempre Virgilio. Zeus ci costringe al lavoro “nec torpere gravi passus sua regna veterno”, non sopportando che il suo regno, la terra, potesse rimanere inerte e inoperosa come in profondo letargo.
È una condanna-benedizione, dunque, quella del lavoro, grazie alla quale, oltre alla fatica e al sudore, arrivano ingegno ed eccellenza, arte, scoperta e socialità. Amore e lavoro, lavoro ed amore. Inscindibile polarità, perché al fine, lavoro significa fare con altri e per altri. Al fondo della bellezza e del senso più vero del lavorare sta proprio la capacità di rispondere a bisogni manifesti o latenti di altri e questo lo avvicina all'amore, alla gratuità, al dono. Non è un caso, dunque, che il tentativo di separare oggi “amor” da “labor” produca vere e proprie patologie, una visione nella quale il lavoro diventa esclusivamente mezzo di sussistenza e occasione di reddito, sposta il fuoco dell'attenzione dall'atto creativo e donativo alle sue conseguenze ed, in particolare, alla possibilità che il reddito ci dà, di consumare. Dal lavoro al consumo, questa è la traslazione ben più che semantica che la società dopo-moderna ci propone, con la quale ci irretisce.
E allora si comprende il manifestarsi dei sintomi evidenti di tale patologia, il proliferare di lavori in-sensati, se non proprio di lavori socialmente dannosi. Lavoro senza amore diventa anche politica, norme, progetti, almeno negli intenti e nelle promesse elettorali. Abbiamo bisogno di “una politica che eviti lo sperpero delle energie umane”, scriveva già all'inizio degli anni ottanta Federico Caffè, non di “ottusità, ammantata da arroganza” (“Il lavoro, dove trovarlo”. Il Corriere della Sera, 15.12.1983). Se lavoro scarseggia sempre più, rendiamolo allora superfluo, detta l'ottusità arrogante, rendiamolo non necessario, sostituiamolo direttamente con il reddito, suo unico fine e giustificazione. Che rimangano i campi inerti e inoperosi, torniamo all'età dell'oro, nella quale fatica e sudore non erano necessari. Barattiamo consumo con senso e significato.
Il lavoro manca: siamo terz'ultimi in Europa per tasso di disoccupazione, davanti solo a Spagna e Grecia. La disoccupazione giovanile è in Germania al 6,1 percento e in Italia al 30,8 ma arriva in Campania al 54,7. Il PIL cresce da noi più lentamente che in ogni altro Paese europeo (European Economic Forcast, Autumn 2018). Il lavoro che divide l'Italia in due, con il tasso di disoccupazione che raggiunge nel terzo trimestre di quest'anno il 5,7 percento nelle regioni del Nord mentre si attesta al 16,5 in quelle del Sud. Il lavoro è minacciato da più parti: il dumping sociale, la ricerca di lavoratori sempre più a basso costo, con sempre meno diritti, all'estero, attraverso le delocalizzazioni, o da noi, attraverso lo sfruttamento della disperazione locale o d'importazione. Lavoro minacciato da un'innovazione sorprendentemente rapida e distruttiva.
L'intelligenza artificiale renderà le macchine digitali complementari ai nostri lavori o porterà ad una sostituzione pressoché completa? E quanti riusciranno a godere dei benefici di questa innovazione distruttrice? Arriverà presto “l'era delle macchine superintelligenti”, come la definisce Tyler Cowen (“La media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del lavoro, 2015, Egea), nella quale avremo “due nazioni: una di straordinario successo, attiva nei settori tecnologicamente più dinamici; di là, tutti gli altri”? Come sarà l'anno nuovo del lavoro? Che 2019 ci aspetta? Mi piacerebbe un anno nel quale “labor” e “amor” inizino a riavvicinarsi e mi piacerebbe un anno nel quale fossero le forze giovani della nostra società ad avviare il processo. Mi piacerebbe una ribellione dei cuori dei nostri figli, sacrificati e dimenticati dalle scelte di una politica malata di corto-termismo e costantemente all'inseguimento di un elettorato sempre più anziano. Cuori giovani che con indignazione e coraggio spingessero verso un futuro differente, affrancato dalla mancanza di senso fatta a sistema, dal pessimismo della demografia e dallo scadimento dell'educazione e della cultura.
Mi piacerebbe una reazione ai rischi dell'Io-globale che non li costringa in una chiusura apatica, nell'illusione di una immunità interiore o nel distacco dalla vita e dall'impegno pubblico. Un anno nuovo dove riconquistare spazi comuni, dove incrociare gli sguardi, fare progetti e coordinare le azioni. Un anno di visionarietà e realismo, di scelte e novità, per uscire, con il nostro lavoro, e soprattutto il loro, quello dei più giovani, da questo letargo della terra, dello spirito e delle mani, dall'inerzia inoperosa di un'età dell'oro solo immaginata e promessa, ma tanto mistificatrice quanto irreale. Un anno nel quale accettare come condizione naturale la nostra vulnerabilità e, come conseguenza diretta, la nostra ineludibile responsabilità verso gli altri, tutti gli altri, la nostra possibilità e il nostro dovere di prenderci cura del Mondo.
Mi auguro e ci auguro un anno nuovo con più “labor” e più “amor”, detti entrambi, sempre più spesso, possibilmente, nella stessa frase.
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