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A caccia dell’arte postcoloniale alla Sharjah Biennal 15

Quasi 300 opere installate dalla Sharjah Art Foundation in luoghi iconici e in spazi quotidiani con focus su migrazione, guerra, decolonizzazione, sfruttamento e propaganda

di Filippo Maggia

Almagul Menlibayeva, “The Tongue and Hunger. Stalin’s Silk Road”,2022–2023. From ‘The Tongue and Hunger. Stalin's Silk Road', 2022–2023. Commissioned by Sharjah Art Foundation. Installation view: Sharjah Biennial 15, Bait Al Serkal, Arts Square, Sharjah, 2023. Image courtesy of Sharjah Art Foundation. Photo: Danko Stjepanovic

8' di lettura

Posizionato al 7° posto nella graduatoria mondiale dei produttori di petrolio, con oltre 4 milioni di barili estratti al giorno, lo stato federale degli Emirati Arabi, costituitosi nel 1971 con capitale Abu Dhabi, dai primi anni ’60 del secolo scorso (il petrolio venne scoperto nel 1958 ad Abu Dhabi e otto anni più tardi a Dubai) ha vissuto un rapido sviluppo economico che negli anni ha portato i sette Emirati del Golfo Persico a diversificare investimenti e interessi in diversi campi. La federazione è così composta: Abu Dhabi (il più grande quanto a territorio) seguito da Dubai, Sharjah, Ras al-Khaimah, Fujairah, Umm al Quwain e Ajman.

Jawad Al Malhi, “Afterwards”, 2017–2022. Installation view: Sharjah Biennial 15, Sharjah Art Museum, 2023. Image courtesy of Sharjah Art Foundation. Photo: Shanavas Jamaluddin

Ogni Emirato è indipendente per gli affari interni, tant'è che sono presenti ben sette aeroporti internazionali in un'area grande come l'Austria.
La popolazione complessiva si avvicina ai 10 milioni di persone di cui poco più dell'11% è rappresentato da cittadini degli UAE, mentre gli stranieri sfiorano i nove milioni di presenze.
Il tasso migratorio netto negli Emirati Arabi è il più alto al mondo: quasi il 22%, in prevalenza da India, Pakistan, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka. In sostanza, oltre il 50% degli emigrati proviene dal subcontinente indiano. Il culto prevalente è quello musulmano (75%), con un 13% di cristiani e un rimanente 12% di fedeli appartenenti ad altre religioni.

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«Rolling Figures 2.0», 2022 di Malaia Andrialavidrazana

La diversificazione

La Federazione ha avviato molto presto una politica di diversificazione economica e industrializzazione, prevalentemente espressa negli Emirati di Abu Dhabi e Dubai, rispettivamente primo e secondo quanto a potere economico e dotazioni petrolifere proprie. Dubai, in particolare, con i suoi quasi 3 milioni e mezzo di abitanti, è la città più popolosa e quella che meglio ha saputo aprirsi tanto all'Occidente quanto all'Oriente trasformandosi in un vero ed esclusivo hub turistico (specialmente nel periodo autunno-inverno) e commerciale, dotandosi di uno degli aeroporti più grandi al mondo e altrettanto si può dire del suo porto, Jebel Ali, il più vasto ed attrezzato nel Medio Oriente.
L'Emirato di Sharjah, terzo per estensione territoriale, conta una popolazione di circa 2,4 milioni di abitanti, di cui oltre la metà residente a Sharjah City sulla costa ovest. Suddiviso in nove municipalità, l'Emirato si spinge sino al Golfo dell'Oman. A differenza di Abu Dhabi e Dubai, le due altre grandi città degli Emirati, Sharjah ha da oltre tre decenni puntato sulla cultura, progressivamente affermandosi come riferimento in ambito internazionale attraverso mostre di affermati artisti internazionali, collaborazioni con prestigiose istituzioni di tutto il mondo e progetti a medio e lungo termine, fra i quali spicca la Biennale di arte contemporanea, giunta quest'anno alla 15ª edizione. Tutto ciò quasi oscurando il Louvre Abu Dhabi progettato da Jean Nouvel e inaugurato nel 2017.

Thenjiwe Niki Nkosi, various works from «Heroes», 2012–ongoing. Private collections. Installation view: Sharjah Biennial 15, Sharjah Art Museum, 2023. Image courtesy of Sharjah Art Foundation. Photo: Shanavas Jamaluddin

Ispirata alle pratiche curatorliali di Enwezor

Sharjah Biennal 15, inaugurata lo scorso 7 febbraio, con un ricco programma di conferenze, performances, lectures, talk e film screening che si protrarrà sino al prossimo 11 giugno, presenta i lavori di più di 150 artisti, in gran parte provenienti dai Paesi a cavallo e a sud del Tropico del Cancro (non è presente nessun artista italiano). Sono esposte nelle varie sedi espositive dislocate a Sharjah City e Al Hamriyah sulla costa ovest dell'Emirato, Al Dhaid all'interno, Kalba e Khorfakkan sulla costa est, più di 300 opere di cui oltre 30 commissionate dalla Biennale, ad attestare l'impegno e la disponibilità economica profusi dalla Sharjah Art Foundation.Negli intenti curatoriali della sua direttrice, la sceicca Hoor Al Qasimi, questa edizione della Biennale di Sharjah vuole rappresentare il punto di arrivo di un lavoro: “di costruzione di relazioni e conversazioni che si svolgono da oltre tre decenni, sia dentro che fuori Sharjah, deregionalizzando il nostro contesto locale attraverso la rappresentazione postcoloniale del Sud del mondo.” Hoor Al Qasimi esplicitamente guarda e riconduce la sua linea curatoriale al pensiero di Okwui Enwezor, partendo dall'edizione di Documenta 11 del 2002 curata, appunto, dal critico e intellettuale nigeriano scomparso nel 2019. In particolare, intitolando la Biennale di Sharjah “Thinking Historically in The Present”, Hoor Al Qasimi riconosce a Enwezor la consapevole necessità di avere un profondo approccio storico nel guardare al contemporaneo - pensare storicamente nel presente -, e la contestuale necessità di delocalizzare l'arte dai consueti luoghi di produzione e consumo, di favorire la sperimentazione e l'impatto sociale che l'arte può avere portandola in contesti inusuali, quali ad esempio: “strutture civiche esistenti, dai cartelloni pubblicitari alle fermate degli autobus”, o come il vecchio mercato orto-frutticolo Old Al Jubail di Sharjah, l'ex-tribunale di Khorfakkan, l'Ice Factory e il Kindergarten di Kalba. Hoor Al Qasimi parte dunque dal modello curatoriale di Enwezor: “per riconsiderare la possibilità che Sharjah sia parte di un nuovo global modern, un centro non occidentale per la circolazione di persone e idee, un'alternativa al pensiero istituzionale radicato”.

Doris Salcedo, «Uprooted», 2020-2022. 804 dead trees and steel; 3000 x 650 x 500 cm. Courtesy ofthe artist. Photo:Juan Castro Photoholic

La decolonizzazione

In tale contesto è fondamentale il concetto di “decolonizzazione”, in particolare per gli artisti del Sud del mondo cui la Biennale riserva un'attenzione prioritaria, con l'obiettivo di trasformare Sharjah in una sorta di piattaforma e centro per la produzione, conoscenza e diffusione di quelle pratiche artistiche postcoloniali altrimenti confinate nell'emisfero meridionale. Se l'affermazione di una propria identità storica e culturale è dunque un tratto comune a molte delle opere presenti, alle volte anche in forma di manifesti politici, è altrettanto vero che una declinazione del postcolonialismo è rappresentata dai flussi migratori causati dai periodi di transizione caratteristici dei Paesi che si affrancano dal modello occidentale a lungo subito. Di questi, va riconosciuto, la Biennale di Sharjah offre diverse interpretazioni con ragionato coraggio e trasparenza, essendo uno dei luoghi dove la forza lavoro è di fatto quasi totalmente composta da emigrati.

Nel complesso, la qualità dei lavori esposti nelle varie sedi della Biennale è mediamente alta: in aggiunta alle 30 opere commissionate appositamente per la Biennale molte altre sono state prodotte e sostenute dalla Sharjah Art Foundation. Dipinti, sculture, installazioni multimediali, fotografie, video, film, sono ben allestiti e alcune delle location sorprendono per la studiata coincidenza fra i contenuti dei manufatti artistici e le architetture che li ospitano, in diversi casi destinate in precedenza ad attività di tutt'altro genere. Si avverte una sintonia di fondo fra presupposti, contenuti e ambiente, certamente frutto di un lavoro curatoriale accurato. Un'omogeneità che il bianco ecru delle pareti esterne dei locali espositivi rende ancora più evidente e intensa.
Simbolicamente, la rassegna si apre presso l'Art Museum Sharjah con un progetto della malgascia Malaia Andrialavidrazana, un grande fotocollage in cui si ripercorre e rimescola, sovvertendo valori e simboli, la storia e rappresentazione del potere coloniale dall'Ottocento alla metà del secolo scorso, utilizzando un linguaggio in cui nozioni e icone territoriali sono rilette e rovesciate. Razzismo e diseguaglianze sociali vengono narrate nei dipinti dell'artista britannica di origine ghanese Kimathi Donkor. Ritratti di persone note e sconosciute nella lotta contro l'apartheid e il colonialismo, disposti a muro come fossero giganti fototessere, sono i protagonisti, i non-eroi della pittrice sudafricana-americana Thenjiwe Niki Nkosi; sempre di lotta all'apartheid parlano le serie di fotografie in bianco e nero del sudafricano Omar Badsha, dall'emblematico titolo “Once We Were Warriors: Women and Resistance in the South African Liberation Struggle”. Ed è una forma di emarginazione anche quella narrata nelle tele di Jawad Al Malhi, dove giovani palestinesi sembrano come spaesati, precari, sospesi nel nulla di una Gerusalemme cancellata intorno a loro. Violente ed esplicite sono le sculture dell'americano Hank Willis Thomas che ricordano la pratica del regime coloniale belga di amputare le mani ai braccianti congolesi che non raggiungevano la quota di gomma raccolta. Altrettanto drammatica è l'installazione organizzata dalla keniana Wangechi Mutu, dal titolo “I ricordi di mia madre, un tumulo di spose sepolte”, disposta lungo i corridoi e nel cortile di Bait Al Serkal: un omaggio all'ostinata resilienza delle donne kikuyu che hanno combattuto per l'indipendenza del Kenya durante la rivolta Mau Mau.

Commissionata dalla Sharjah Art Foundation è la grande camera sonora di Hajra Waheed, canadese di origine araba, al cui interno risuonano canti originati da rivolte popolari, movimenti sociali di massa e lotte anticoloniali nelle Americhe, Asia e Africa dove le donne sono state protagoniste. Ed è ancora la figura femminile al centro della particolare installazione multimediale dell'artista indiana Prajakta Potnis, un'esplorazione del lavoro quotidiano delle operatrici sanitarie, badanti e semplici domestiche, cui vengono segregati gli oggetti personali (come i telefoni cellulari) dai datori di lavoro. A questa condizione di moderna schiavitù l'artista contrappone un mondo onirico fatto di visioni e sogni ad occhi aperti nei quali cercare conforto. Sorprendente e al tempo stesso delicato è il lavoro proposto da un'altra artista indiana, Reena Saini Kallat: sculture modellate partendo da dispositivi sonori di allarme aereo impiegati durante la seconda guerra mondiale. Da quei dispositivi oggi escono i canti di uccelli appartenenti a Paesi confinanti in aperta ostilità: Israele-Palestina, Regno Unito-Irlanda, India-Pakistan, Usa e Messico. Il film “Water no Get Enemy: Counter-Cartographies of Diaspora” di Remi Kuforiji è in realtà un progetto di ricerca poliedrico che sviluppa un modello di resistenza alle pratiche neocoloniali di estrazione del petrolio grezzo ed ecocidio praticati nel Delta del fiume Niger.

Nari Ward, «Duty Colossus» (detail), 2022. Commissioned by MASS MoCA, North Adams, USA, and Sharjah Art Foundation. Installation view: Sharjah Biennial 15, Kalba Ice Factory, 2023. Image courtesy of Sharjah Art Foundation. Photo:Motaz Mawid

I conflitti e la manipolazione

La follia geopolitica è anche il tema dell'installazione “Sotto il letto del fiume freddo” realizzata dai libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, storia di Nahr el Bared, campo profughi palestinese costruito nel nord del Libano nel 1948. Nel 2007, dopo un conflitto durato più di tre mesi fra l'esercito libanese e gli estremisti di Fatah El Islam, il campo venne praticamente distrutto e furono sfollati i 30.000 abitanti. Durante la ricostruzione strati di testimonianze archeologiche di antiche rovine della città romana perduta Orthosia sono stati portati alla luce. Ma cosa accadrà ai profughi palestinesi già sfollati e in attesa di tornare al campo? Allocato presso il vecchio mercato ortofrutticolo di Al Jubail, il lavoro dell'indonesiana Elia Nurvista ripercorre le vicende legate alla produzione dell'olio di palma, di cui l'Indonesia è il principale produttore al mondo. Importate dagli olandesi dall'Africa durante il colonialismo, le piantagioni di palma hanno rovinato la terra e generato conflitti fra le comunità locali, arrivando oggi a causare un esponenziale aumento della deforestazione – per far posto a nuove piantagioni - con effetti devastanti per l'ecosistema del Paese del Sud-est asiatico. Al tema dei migranti, nel villaggio di Kalba, sono allestite due imponenti e commoventi opere, entrambe commissionate dalla Sharjah Art Foundation: 804 alberi morti, scolpiti e assemblati in forma di casa dalla colombiana Doris Salcedo, e un gigantesco cono/basket che pare inghiottire il barcone che lo fronteggia carico di mobili e vettovaglie, del giamaicano Nari Ward. Strutturalmente inabitabile, la casa della Salcedo è una metafora della condizione del rifugiato che vive in uno stato permanente di precarietà, mentre il barcone dei migranti di Ward sembra intrappolato verso un destino incerto e sicuramente disagevole.

Heri Dono, «Fermentation of the Brain», 2015. Installation view: Sharjah Biennial 15, Kalba Kindergarten, 2023. Image courtesy of Sharjah Art Foundation. Photo: Danko Stjepanovic

Pedagogia come propaganda è il tema affrontato dall'artista indonesiano Heri Dono con l'installazione di nove vecchi banchi di scuola disposti su tre fila, su ognuno dei quali due teste in fibra di vetro annuiscono all'unisono. L’installazione è un commento esplicito sulla propaganda e i tentativi di controllare il pensiero e l’opinione pubblica durante l’era della dittatura di Suharto (1967– 1998) in Indonesia. L'australiana di origine aborigena Tracey Moffatt espone un inquietante video in cui una modesta piccola fattoria, sperduta nell'interno del Paese, emette nel buio notturno un sinistro bagliore intermittente rosso sangue dalle sue finestre e porte. La casa si trova sul terreno confiscato dei popoli Wailwan, un'altra sanguinosa storia coloniale di espropriazione e resistenza indigena, di carneficina e conseguente abbandono delle terre di origine.

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