A modo mio! Come prendere con successo le proprie decisioni in azienda
L’area della discrezionalità ha il suo senso perché le modalità con cui esercitiamo il ruolo devono essere compatibili con gli obiettivi che intendiamo raggiungere
di Italia Rana *
3' di lettura
«Fai sempre le cose a modo tuo!» Quante volte vi sarà capitato di sentirvi dire questa frase? A me è capitato decine di volte. Fin da piccola, le bambine della mia età mi guardavano in modo strano perché non giocavo come loro; ad esempio, a me non piacevano le Barbie: le trovavo estremamente noiose con quei vestitini pomposi e quelle facce sempre sorridenti.
Crescendo, anche in Università ho scoperto che studiavo a modo mio: studiavo di notte, generalmente da sola e non mi piaceva troppo il toto voti.
E poi ho iniziato a lavorare ed è proprio sul lavoro che ho davvero realizzato che sono solita fare le cose a modo mio. Ed è un privilegio, perché ci sono molti contesti in cui questo non è possibile. Allora mi sono chiesta: “Cosa significa fare le cose a modo tuo nel ruolo professionale che ricopri?” E mi è venuta in mente la definizione di ruolo data da Luciano Gallino, secondo cui è “un sistema di norme e di aspettative che convergono su di una persona in quanto occupa una determinata posizione in una rete di relazioni sociali”.
Il tema, dunque, è che il ruolo è fortemente connesso alle aspettative altrui che dipendono (in parte) da norme socialmente condivise. Questo ci porterebbe a pensare che ci omologhiamo agli altri in tutti gli aspetti della nostra vita. E del resto, già Erving Goffman ci aveva illuminato a proposito delle aspettative sociali di ruolo. Dunque, nel lavoro, siamo tutti attori sul palcoscenico della vita ed interpretiamo il nostro ruolo a seconda di ciò che l’organizzazione si aspetta da noi? Recitiamo pezzi di copione sparsi qui e là senza avere una sincera autenticità nelle modalità attraverso cui adottiamo i comportamenti?
Per rispondere alla domanda, riprendiamo la struttura di un ruolo organizzativo. Questo è composto da 3 aree:
• L’area prescritta: indica quel complesso di attività, regole e procedure decise a priori a seconda delle necessità dell’organizzazione. Sono le mansioni che troviamo scritte sul nostro contratto di lavoro, il motivo per cui ci stanno assumendo in quell'azienda. Ed è la parte di ruolo più direttamente collegata agli obiettivi organizzativi.
• L'area discrezionale: risponde al “come” svolgo il mio ruolo. Qui subentra quello che Pierpaolo Donati chiama “soggetto relazionale”, ovvero “un agente/attore colto prima di tutto nella sua individualità di persona umana”. Tutte le volte che facciamo qualcosa, dunque, inevitabilmente, lo facciamo “a modo nostro” perché emerge la nostra “umanità”.
• L'area innovativa: è più difficile da definire. Non fa capo a qualcosa di presente ma attiene più alla capacità umana di immaginare scenari futuri. Ha molto a che vedere con il pensiero laterale e la creatività. Esercitiamo l’area innovativa tutte le volte che un certo status quo non è più adatto a quel contesto.
Dunque, potremmo concludere che tutti siamo liberi di esercitare il nostro ruolo professionale come ci pare e piace. Che è giustificabile qualsiasi azione e comportamento purché siano in linea con l'etica, la morale o la legge.
In verità, l’area discrezionale ha il suo senso perché le modalità con cui esercitiamo il ruolo devono essere compatibili con gli obiettivi che intendiamo raggiungere. I colleghi, i clienti, i capi, ci lasciano interpretare i contesti perché dobbiamo trovare strategie utili a raggiungere obiettivi. Da parte loro, questo non è un atto di generosità: lo fanno perché non potrebbe essere altrimenti, data la complessità che stiamo vivendo. Dal canto nostro, siamo naturalmente portati ad esercitare la discrezionalità, perché l’indole di ciascuno di noi emerge sempre e comunque.
Pertanto, un ruolo organizzativo è permeato dall’utilità. A proposito di utilità, mi viene in mente il concetto di utilitarismo di Jeremy Bentham, che, parafrasato, ci porta a sostenere che una persona è utile quando porta beneficio al contesto in cui opera. Possiamo traslare il concetto di utilità nel contesto organizzativo, assumendo che siamo utili quando raggiungiamo gli obiettivi assegnati dall’area prescritta.
Pertanto, il vero punto della questione è: “Quanto siamo utili all’organizzazione in cui operiamo?” La risposta è semplice: siamo utili quando, attraverso la nostra area discrezionale (e in alcuni casi, la nostra area innovativa) riusciamo a portarci a casa l’obiettivo. E raggiungere l’obiettivo altro non significa che apportare benessere organizzativo.
Concludendo, non è sbagliato fare le cose a modo nostro purché tutte le volte che interagiamo con gli altri ci poniamo la domanda: “Facendo a modo mio, sono utile agli altri? O, detto in altri termini: “Sto apportando benessere alle persone che intorno a me?”. Se la risposta è sì allora siamo sulla strada giusta. Se la risposta è no, allora non siamo nel campo della discrezionalità ma dell'anarchia.
* Consulente Newton Spa
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