A New Delhi gli scontri più violenti dall’uccisione di Indira Gandhi
Le manifestazioni contro la legge sulla cittadinanza sfociano in scene da guerra civile: musulmani (e laici) si scontrano con i sostenitori di Modi
di Gianluca Di Donfrancesco
3' di lettura
Sono gli scontri più violenti che si siano visti a New Delhi dal giorno dell’assassinio di Indira Gandhi, nel 1984, quelli iniziati domenica pomeriggio e continuati per giorni: scene da guerra civile, con almeno 24 morti e quasi 200 feriti.
Due fazioni si sono fronteggiate in numerose zone periferiche della capitale, lontano dal quartiere amministrativo, dove nel frattempo si svolgeva la visita di Stato del presidente Usa, Donald Trump. Da una parte, ci sono migliaia di indiani che contestano le modifiche della legge sulla cittadinanza varata lo scorso anno: sono musulmani, studenti universitari, oppositori del partito di maggioranza Bjp e cittadini indignati per quelle che considerano discriminazioni ai danni di una minoranza religiosa e quindi uno schiaffo insopportabile ai valori laici del Paese. Non il primo, ai loro occhi.
Dall’altra parte della barricata, ci sono altre migliaia di indiani favorevoli a quella legge: sono i sostenitori del Bjp, il partito nazionalista hindu al Governo, sotto la guida del premier Narendra Modi. In queste fila rientrano i gruppi di persone che negli ultimi giorni si sono scagliate contro le comunità musulmane e, incitate da politici locali del Bjp, hanno devastato e bruciato negozi, case e almeno due moschee, aggredendo persone con bastoni pietre e anche armi da fuoco. Diversi giornalisti sono stati attaccati (uno è rimasto ferito da un colpo di pistola) mentre stavano filmando le violenze.
E poi c’è la polizia, che ha impiegato gas lacrimogeni e granate stordenti senza però riuscire a fermare il caos e che conta una cinquantina di feriti tra i propri ranghi: non abbastanza per sfuggire all’accusa di non aver fatto tutto il possibile per ripristinare l’ordine e soccorrere i feriti.
Scene da guerra civile, appunto, che segnano il culmine di proteste e violenze che si trascinano da mesi, in un crescendo d’intensità. La priorità è ora placare gli animi: «Mi appello alle sorelle e ai fratelli di Delhi perché mantengano sempre la pace e la fratellanza. È fondamentale che si ritorni al più presto alla normalità», ha scritto ieri il premier Modi in un tweet.
Il governatore di Delhi, Arwind Kejriwal, leader del Partito dell’Uomo comune e appena rieletto dopo una violenta campagna elettorale, ha chiesto il coprifuoco e l’intervento dell’esercito nelle aree colpite dai disordini, ieri pattugliate da forze paramilitari. La presidente del Partito del Congresso, Sonia Gandhi, ha invece chiesto le dimissioni del ministro degli Interni, Amit Shah, per non avere bloccato le violenze e avere consentito che la situazione degenerasse. La polizia di New Delhi dipende dal ministero dell’Interno e la sicurezza nella capitale è sua responsabilità. Shah è poi l’ispiratore della riforma della legge sulla cittadinanza.
A far esplodere le tensioni latenti tra la maggioranza hindu e la minoranza musulmana (180 milioni di persone), è stato l’emendamento approvato a dicembre del 2019 per accelerare l’iter di concessione della cittadinanza, quando a chiederla sono persone in fuga da persecuzioni religiose subite in Bangladesh, Pakistan e Afghanistan, tutti Paesi a maggioranza musulmana. Alla corsia preferenziale sono ammessi i fedeli di tutte le principali religioni della regione, eccetto quella islamica. Per il Governo, il motivo è chiaro: per definizione, i musulmani non sono vittime di persecuzione in quegli Stati. Molti musulmani indiani la vedono diversamente: una legge che fa differenze in base alla religione viola di per sé la Costituzione, conferma la sensazione di essere trattati come cittadini di serie B e alimenta il timore che il Bjp voglia creare uno Stato hindu-centrico. Preoccupazioni largamente condivise da chi ha semplicemente a cuore la laicità dello Stato e il lascito di tolleranza e convivenza del Mahatma Gandhi.
I semi delle violenze scoppiate a più riprese negli ultimi mesi, sono state l’abolizone (agosto 2019) dell’autonomia amministrativa dell’unico Stato a maggioranza musulmana della Confederazione indiana, il Jammu e Kashmir, la retorica incendiaria di diversi esponenti di primo piano del Bjp, e l’ipotesi, avanzata dallo stesso ministro Shah, di verificare i requisiti di cittadinanza di tutti gli indiani, con l’esclusione dello status per quanti non siano in grado di dimostrarla: i primi a sentirsi vittime di una misura di questo genere sono ancora una volta i musulmani, che arrivano a temerla come una sorta di anticamera alla deportazione.
Mentre i social media giocano anche da queste parti il loro ruolo di catalizzatori dell’odio e delle fobie, diversi Stati indiani hanno fatto però sapere che non si presteranno a un’operazione tanto controversa. L’India, fanno presente in molti, «resta una democrazia e ha i suoi anticorpi».
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