l’estate «olimpica» di “IL” / 2

A palle di neve alle termopili

Il 24 luglio a Tokyo avrebbero dovuto aprirsi le XXXII Olimpiadi. Per non rinunciare a quel sogno il magazine del Sole 24 Ore ha chiesto a cinque grandi scrittori di narrarci cinque atleti: sono le nostre Olimpiadi per l'estate 2020. Abbiamo cominciato con il neo vincitore del Premio Strega Sandro Veronesi. Questa è la seconda puntata

di Paolo Cognetti

Jan Železný, Repubblica Ceca, giavellottista

4' di lettura

Il mio sport durante gli anni del liceo è stato il lancio del giavellotto. Il motivo di una scelta così strana fu casuale – l'insegnante di ginnastica faceva anche l'allenatore di atletica, e in particolare allenava i lanciatori – ma ben presto divenne grande amore. Amore per l'attrezzo, amore per il gesto, amore per vedere una lancia volare in cielo scagliata dal tuo braccio, amore per i prati in cui andava a conficcarsi alla fine del volo.

Il giavellottista è un lanciatore atipico rispetto agli altri tre. Il peso, il disco, il martello richiedono una tecnica simile: la pedana è tonda e il movimento rotatorio, l'atleta ha pochissimo spazio per caricare il lancio e usa solo forza esplosiva. Gli servono grandi cosce, grandi pettorali, una coordinazione da ballerino e una certa massa corporea per manovrare palle di ferro da 7 chili.

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Il giavellottista invece ha a disposizione un attrezzo leggero (appena 8 etti per gli uomini, 6 per le donne) e una rincorsa che può esser lunga a piacimento. Deve avere un bel braccio, sì, ma soprattutto ottime gambe in accelerazione. Insomma il giavellottista è prima di tutto uno scattista – se la caverebbe bene a gareggiare sui 30 metri – e io ricordo allenamenti composti in egual misura da ripetute su pista, potenziamento muscolare in palestra e tecnica di lancio.

Il tutto per produrre un me diciassettenne che riusciva a lanciare un giavellotto a 45 metri di distanza. Jan Železný, il campione dell'epoca, con lo stesso attrezzo superava di parecchio i 90. Lui era il mio idolo, ma non c'erano molti dubbi, allora, su chi dovesse essere l'idolo nella nostra disciplina. Era stato cecoslovacco, poi ceco, era figlio di giavellottisti (per motivi difficili da comprendere, il giavellotto è una disciplina nazionale sia tra i finlandesi sia tra i cechi), ma ciò che spiccava subito, a vederlo, era l'apparente normalità del suo fisico di atleta.

Date un'occhiata ai video di Železný: 1,86 d'altezza, 85 chili di peso, snello e robusto, sembra uno che potrebbe praticare qualsiasi sport. È strano per l'atletica, che di solito modella il corpo in forme estreme. Lui non ha le braccia di un saltatore con l'asta, le cosce di un lanciatore di martello, i polpacci di un centometrista. Železný sembra un atleta d'altri tempi, più classe che muscoli, come agli albori delle Olimpiadi moderne, ma dove può arrivare negli anni Novanta uno così?

Ecco dove: dopo avere sfiorato l'oro olimpico a Seoul nell'88, nel decennio successivo ne vinse tre di fila – Barcellona '92, Atlanta '96, Sidney 2000 – affermandosi senz'ombra di dubbio come il più grande giavellottista della storia. È stato il Lewis, il Bubka, il Bolt del giavellotto maschile. Eccolo lì, osservatelo lanciare. È bello, il lancio del giavellotto, anche perché a guardarlo sembra un gesto del tutto naturale:uno corre e poi lancia come farebbe un bambino con una palla di neve.

Bisogna fare più attenzione, rivedere al rallentatore, per coglierne la difficoltà. Allora si nota che a una prima parte di rincorsa frontale, in cui il lanciatore prende semplicemente velocità, segue a un certo punto un movimento, la sfilata, dove i passi diventano laterali e incrociati. Il braccio che prima era sopra la spalla, in attesa, con il giavellotto stretto in pugno, si distende all'indietro. I passi laterali sono tre oppure cinque, l'ultimo è il più importante di tutti: il piede sinistro avanza un'ultima volta e si blocca puntandosi di colpo (per questo i giavellottisti portano scarpe chiodate).

Le anche, dalla posizione laterale, ruotano in posizione frontale come quelle di un pugile che tira un diretto destro: è il colpo d'anca, che riporta il busto a guardare in avanti. Ora la schiena è inarcata all'indietro, la spalla è in estensione, l'energia cinetica accumulata nella rincorsa sale tutta per il corpo, poi schiena e spalla fanno partire il braccio nella frustata: se non ci si vuole distruggere il gomito, a ripetere questo gesto per centinaia o migliaia di volte, il braccio deve rimanere rilassato e disteso, non piegarsi come verrebbe naturale.

Deve passare alto sopra la testa grazie a un'estrema mobilità della spalla. Infine la mano rilascia il giavellotto a un'inclinazione tra i 30 e i 40 gradi, quella ottimale per tracciare la più lunga parabola. Ci vuole forza, sì, ma come i migliori pugili Železný era un campione soprattutto nel gioco di piedi – la sua tecnica di sfilata oggi prende il suo nome – e aveva un braccio di cui colpisce la scioltezza, non la potenza. L'estrema fluidità del suo gesto. Sembra tutto così naturale mentre lo fa, ma poi quando vedi quella lancia che vola alta nel cielo, sale, sale, sembra non scendere più, percorre tutto lo stadio e infine atterra 90 metri più in là, ti rendi conto di aver assistito a un gesto straordinario. 90 metri è come dire da una riva all'altra di un grande fiume, da un fronte all'altro di un campo di battaglia.

Se fossimo nell'antica Grecia, Železný sarebbe il più temibile dei giavellottisti. Questo è il bello dei lanci, ti riportano alle Termopili e a Troia, sono gesti di guerre antiche sublimati in gesti atletici. Železný scaglia la sua lancia nel cielo di Barcellona e contro la cavalleria persiana. La sua misura di 98,48 metri, un lancio che parte da una curva della pista di atletica e finisce all'altra, risale al 1996 ed è tuttora il record mondiale della disciplina. Avrebbe anche superato i 100 metri, ma la Iaaf, allarmata da lanci che rischiavano di non stare più negli stadi, a un certo punto aveva modificato l'attrezzo, spostando il baricentro in avanti in modo da farlo atterrare prima.

Io di quegli anni mi porto dietro il suo nome, una grande emozione quando rivedo i giavellottisti alle Olimpiadi, un vecchio dolore al gomito quando faccio a palle di neve con gli amici. Le mie palle di neve volano ancora molto più lontane delle loro.

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