A Parigi tra eccessi incontrollati e semplificazione ieratica
Dagli abiti come tavolozze di Schiaparelli alla “sottrazione” di Dior
di Angelo Flaccavento
2' di lettura
La polarizzazione su estremi opposti e inconciliabili definisce il tempo presente: scompaiono tutte le sfumature intermedie, dalle classi sociali alla creatività, con quel di esacerbato che ne consegue. La settimana della couture parigina si è aperta ieri all'insegna del tutto o niente, dell'eccesso incontrollato o della semplificazione ieratica, del realismo o della fuga. Paradossalmente, tanto più alto è il saper fare degli atelier, quanto più è l'apparente sottrazione a manifestarsi in tutta la sua forza. Aggiungere è troppo facile, oltremodo semplicistico.
La maniera in cui Daniel Roseberry lo fa da Schiaparelli intenerisce quasi, da tanto che è naif: abiti come tavolozze, nudità dipinte di blu Klein, macro serrature e surrealismi vari - con molto Gaultier e altrettanto Lacroix gettati nella mischia, senza particolare grazia. Dopo un intermezzo scultoreo e sensualmente severo durato appena qualche stagione, Roseberry torna a sperimentare ed eccedere, certamente a favor di social e pensando al rapporto di Elsa con gli artisti, ma dimenticando che gli abiti non sono arredi, non sono solo oggetti visivi. Per vestire le donne ogni giorno c'è il prêt-à-porter, certo, però qui il teatro prende un po' la mano, e la coerenza di racconto va a ramengo. L'occhio ne gode, di sicuro, ma si satolla presto. Paradossalmente, la metaforica sazietà incombe presto anche da Dior, dove Maria Grazia Chiuri dice a chiare lettere “Più avanzo nel mio percorso, più tolgo, sottraggo, elimino” e si produce in una prova di magnifica, monacale semplicità - non troppo lontana da quanto faceva da Valentino - che è naturale avanzamento di un processo di epurazione esperito nel tempo. I suoi sono abiti veri, da indossare, e per questo li si apprezza. A questo giro anche i ricami sono sottrazioni: alte operazioni di “sfilato”, ovvero decori ottenuti, appunto, rimuovendo trama o ordito dalle tessiture. Tutto è lungo, lieve, drappeggiato, pallido, ed eseguito con somma perizia, ma l'effetto è monocorde. Cotanta semplicità, forse, si opacizza nella cornice della sfilata classica anche se la scatola scenica, una sequenza panteistica di dee ricamate, opera dell'artista Marta Roberti, è commovente.
Thom Browne celebra i vent'anni di attività con una sfilata couture una tantum che si tiene sul palco dell'Opera Garnier ed è criptica, ripetitiva, estenuante come da copione, ma anche affermativa di un codice che del grigio e del repetita juvant ha fatto mantra. È tutto un succedersi di uniformi, dritte e appiombanti o curve come campane, che attraverso intarsi e ricami esplorano le infinite sfumature del grigio, in sostanza trovando uno sbilenco e martellante equilibrio tra eccesso e sottrazione, con non poco camp, e ancor più infantilismo, e molto humor. Giambattista Valli, in fine, sfila a casa, ovvero nella nuova, ovattata, candida sede della maison, in Boulevard de Capucines. Anche la collezione è pervasa da un senso di domesticità, o forse meglio da una calma potente. Dai volumi scultorei ai fiocchi alle linee verticali, è tutta una riaffermazione di Valli-pensiero, senza ostentazione, senza preziosismi, alla ricerca di una classicità che ipso facto coincide con la modernità.
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