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A Parigi tra show spettacolari e collezioni che tracciano una nuova mascolinità

Dallo show di Louis Vuitton, emblema della moda-entertainment, alle costruzioni ricercate di Rick Owens. Nella capitale francese si conclude la presentazione delle collezioni maschili pe 2024

di Angelo Flaccavento

Louis Vuitton. Tra tailoring e sport

3' di lettura

La moda, sempre più, diventa tutt’uno con l’intrattenimento. Vende visioni del vestire e nel mentre produce contenuti, spettacoli, emozioni, e aggrega persone. Lo si potrebbe chiamare cultural capitalism.

A Parigi la spettacolarità è da sempre di casa ma ultimamente deflagra: i grandi gruppi, ma anche i pochi indipendenti rimasti, è qui che si confrontano senza esclusione di colpi. La settimana della moda maschile si è aperta martedì sera con un gran botto: il debutto di Pharrell Williams alla direzione creativa della divisione uomo di Louis Vuitton, il più grande marchio del lusso al mondo (oltre 20 miliardi il fatturato 2022) e guidato dall’italiano Pietro Beccari. Williams, musicista e produttore – dunque, un amateur quanto a design, nonostante le precedenti collaborazioni stellate con Chanel e Moncler – prende il posto che fu di Virgil Abloh, altro non professionista di grande acume.

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Mentre si moltiplicano le scuole di moda, i ruoli chiave vengono offerti a personaggi famosi in altri campi, che nemmeno concorrono per gli stessi ma sono rincorsi per il valore aggiunto che possono regalare. Quella di Vuitton è una produzione faraonica: sfilata sul Pont Neuf interamente ricoperto d’oro, arrivo degli ospiti in bateau mouche, parterre con tutti i reali dell’entertainment, da Rihanna perennemente in ritardo, a Beyoncé. Parlare di sfilata, qui, è riduttivo. Vuitton si sta trasformando in un cultural brand con una cultura del branding particolarmente evoluta e penetrante. Lo show allora è da leggere come un happening totale, non a caso concluso da un trascinante concerto di Pharrell e Jay-Z. In questa cornice gli abiti – un melange disparato di tailoring, sportswear, vaga eccentricità tenuto insieme dall’ubiquo motivo damier – sono solo una parte dell’equazione. A tratti l’offerta sembra un remix astuto dell’archivio. Lo spettacolo è grandioso, e certamente aggregativo, ma la moda, ancora, deve essere messa a fuoco. Manca l’ispirata leggerezza che Pharrell profonde nel suo personalissimo modo di vestire. Perché non importa quanto entertainment si faccia, alla fine vestiti e accessori contano: è la loro vendita che alimenta tutta la macchina.

Il contrasto tra cotanta dovizia abbagliante di sorprese e l’efficace schiettezza di piccoli show concentrati sul prodotto dice molto dell’oggi, di quanto tutto si polarizzi sugli estremi. Hed Mayner presenta in uno spazio intimo, quasi claustrofobico, che fa apparire le sue creazioni ancora più voluminose. La prova brilla per visione ed esecuzione: partendo dai capi più normali – camicie, pullover, blazer, chinos, trench – Mayner opera traslazioni di materia e taglia, gigantizzando e irrigidendo tutto, bloccando pieghe e movimenti in torsioni scultoree.Nonostante l’elaborazione decisamente concettuale, il risultato sono pezzi che ben si immaginano nella vita reale.

Da Lemaire l’effetto tranche de vie è parte del codice: un guardaroba di abiti fluidi dalla allure composta e transgenerazionale. Sotto un porticato, sul pavimento bagnato, al suono di uno scroscio di pioggia, i modelli arrivano da ogni direzione, come in certi affollati incroci cittadini, vestiti di pezzi dalla esemplare e avvolgente semplicità.

Grace Wales-Bonner è una delle voci più interessanti del panorama corrente: ha un gusto squisito e un senso sottile dell’eleganza, e mescola cultura nera e bianca in un segno tutto suo. Questa stagione si ispira ai maratoneti etiopi e keniani, e disegna silhouette snelle e vibranti, a metà tra Savile Row e lo chic asciutto di certo sportswear d’antan.

Da Homme Plissè Issey Miyake tutto è meravigliosamente fluido, leggero, aereo: i capi accompagnano gesti e movimenti, il corpo si libera. Qui il punto di partenza non è mai altro che non sia la tecnica, ma tanto più evidente lo spazio limitato di azione – plissè e dintorni – quanto più si moltiplicano le possibilità. Si gioca con il ritmo, il verso e la spaziatura delle pieghe e il risultato è ineffabile: moda che si fonde con la persona.

Yohji Yamamoto è il sempiterno araldo di una mascolinità ruvida e lirica, punk e pittorica, mentre da Givenchy il direttore creativo Matthew Williams trova un nuovo, teso equilibrio tra sofisticherie sartoriali e urgenze della strada, producendo la sua prova più convincente.

In un momento in cui i vestiti sembrano essere l’ultimo degli interessi, in primis per chi li fa, la concentrazione di Rick Owens su costruzione e silhouette ha un che di eroico, anche perché non esclude lo spettacolo, ma lo integra in modo organico, amplificando il messaggio ma evitando il fumo negli occhi.Tra botti colorati di fuochi d’artificio e battiti industriali, Owens presenta la sua idea di escapismo come risposta ai tempi duri, anche retrivi che stiamo vivendo: nera, rigorosa, strutturata, con concessioni di fluido e di flou, più Bela Lugosi o Peter Murphy che gaudente edonista. Owens è un designer che non smette di interrogarsi sul presente, cui risponde affinando senza sosta una formula in apparenza statica, invero dinamica. Come il nero: un intero spettro di possibilità.

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