A proposito di quiet quitting: l’insolita prospettiva della malinconia
Una nuova chiave di lettura di un fenomeno sempre più diffuso e che spesso viene valutato in modo frettoloso e impreciso
di Gianluca Rizzi
4' di lettura
Pare che una volta Aristotele si sia posto una domanda: come mai gran parte di coloro che hanno eccelso nei campi della filosofia, della politica, della poesia o delle arti hanno sofferto di malinconia? Pensando a Platone, Socrate, Ercole e Aiace, Aristotele intendeva mettere in evidenza un nesso tra l’intelligenza e la malinconia, uno stato d’animo, quest'ultimo, per certi versi controverso e spesso non visto di buon occhio.
A cosa si deve questa possibile connessione? Secondo Alain De Botton, brillante filosofo e divulgatore, “se ha senso associare malinconia e intelligenza, è perché i malinconici sfuggono a due errori tipici delle menti più deboli: la rabbia e l’ingenuità.”
Il malinconico è intimamente consapevole del fatto che non sempre le cose vanno come dovrebbero o come ci si aspetterebbe e pertanto non cede alla tentazione della frustrazione rabbiosa. Al tempo stesso rifugge da una forma ingenua di ottimismo trovando nel possibilismo verso i fatti, piccoli e grandi, della vita, un posa funzionale e soddisfacente.
Ormai da molti mesi a questa parte si continua a parlare di great resignation e di quiet quitting. Le grandi dimissioni e l’abbandono silenzioso sono due fenomeni distinti intorno a cui si sta consumando un dibattito, nella migliore delle ipotesi utile a tenere viva l’attenzione su una situazione contingente legata alla recente emergenza pandemica, nella peggiore delle ipotesi fuorviante se l’obiettivo diviene quello di formulare affermazioni definitive sui fenomeni stessi.
Bisogna aggiungere che la misurabilità dei due trend è molto diversa e, cionondimeno, controversa in entrambi i casi. Nel caso della great resignation, i dati grezzi sono reperibili da più fonti e certamente attendibili; la loro interpretazione invece è qualcosa di decisamente più complesso e come Francesco Armillei riferisce in un articolo pubblicato su Lavoce.info: “Le interpretazioni date nel dibattito pubblico sono state le più diverse, ma in sostanza sono raggruppabili in due categorie: l’interpretazione della “normalità” e quella della “eccezionalità”.
Secondo la prima, le grandi dimissioni sono state un fenomeno in linea con lo scenario macroeconomico positivo degli ultimi due anni, mentre secondo i sostenitori della seconda tesi, si tratta invece qualcosa di eccezionale, frutto del periodo straordinario che i lavoratori hanno vissuto durante la pandemia da Covid-19. Ma proprio sulla eccezionalità, o unicità, del fenomeno vi è stato un fraintendimento tra ciò che misuriamo e ciò che pensiamo esistere.
”Il quiet quitting, nato nel momento in cui l’hashtag “#quietquitting” lanciato su Tik Tok da Zaid Khan, un ingegnere newyorkese di vent’anni, ha raggiunto rapidamente alcuni milioni di visualizzazioni, lo si misura indirettamente tramite le survey di engagement che sfruttano un approccio qualitativo, intrinsecamente discutibile. Morale della favola: le interpretazioni di questi fenomeni che cercano di saltare a conclusioni ampie e trasversali comportano il rischio di portarci lontano da dove queste cose poi accadono davvero, ovvero nelle organizzazioni che certamente stanno fronteggiando sfide inedite.
Se da un lato può essere condivisibile che “nulla esiste finché non lo misuriamo” come il fisico danese Niels Bohr sosteneva, dall’altro non possiamo nemmeno trarre conclusioni affrettate e probabilmente fallaci da misurazioni e interpretazioni per loro stessa natura non così robuste.
Proviamo pertanto a fare una cosa diversa, ovvero ad assumere una prospettiva micro e, con particolare riferimento al quiet quitting, chiederci come rilevare il fenomeno intorno a noi e, nel rispetto del ruolo che interpretiamo nei confronti degli altri, chiederci quale primo passo muovere.
Innanzitutto, definiamo meglio il fenomeno indicandolo con le parole di Gianni Rusconi su queste stesse pagine: il quiet quitting “riflette la scelta di eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro. […] Da tendenza social, il fenomeno ha così assunto le forme dell’antidoto per curare lo stress e il burnout da troppo lavoro “imponendo” un nuovo modello: fare lo stretto necessario, non dare troppa importanza ai problemi dell’ufficio ed eleggere a priorità un miglior equilibrio nella propria vita privata.
”Appare evidente come il quiet quitting rappresenti un approccio per sua stessa natura contraddittorio poiché oscilla tra un’inquietante e per nulla inedita forma di “astensionismo” e di radicale deresponsabilizzazione da un lato e una comprensibile e, per certi versi, addirittura auspicabile propensione a un minor grado di coinvolgimento psicofisico, necessario per preservarsi dalle fatiche di una fase storica tutt’altro che semplice.
La malinconia cui si faceva cenno all’inizio potrebbe fornire una chiave di lettura magari utile, tralasciando la parola in sé e recuperandone solo la connessione con quella forma di intelligenza capace di ricercare e coltivare un equilibrio mai semplice fra la tentazione di cedere a una frustrata (o talvolta addirittura rabbiosa) deresponsabilizzazione che non giova alla comunità aziendale, men che meno all’individuo, e lo slancio ostinatamente energico verso una forma di cieco ottimismo e sterile eroismo che consumano inesorabilmente le energie del singolo. Potrebbe sembrare curioso per non dire bizzarro ma la malinconia così come intesa nelle righe sopra può offrire una chiave d’approccio nuova e soprattutto utile.
* Partner di Newton S.p.A.
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