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A San Claudio al Chienti, quasi vera Aquisgrana

Dopo Ancona, fra le viuzze del ghetto e la facciata di S. Maria della Piazza, ecco la Marca maceratese con il borgo di Montecosaro e il romanico di S. Maria a piè di Chienti

di Elisabetta Rasy

Illustrazione di Federico Tramonte

5' di lettura

Lo hanno detto, scritto, ripetuto in molti di fronte alle sorprese che riserva il territorio italiano: il nostro Paese è come una gran dama che sparge i suoi gioielli dove capita, con sovrana indifferenza, e talvolta non riesce a ritrovarli. A volte, anche questo è sfortunatamente noto, quei gioielli dimenticati si impolverano, si deteriorano oppure assumono quell’aria desolata e avvilita degli oggetti di cui nessuno si cura. Ma quando l’arte e la bellezza resistono al tempo, per chi li scopre – sono davvero così tanti che è impossibile conoscerli tutti – i nostri monumenti si manifestano nel loro prodigioso splendore.

Ho fatto questa premessa per raccontare una personale sorpresa. Dovendo raggiungere la Marca maceratese dove ho degli impegni professionali, mi concedo una breve sosta ad Ancona. Scendendo per le strette e ripide strade dell’antico affascinante ghetto ebraico della città, con le sue alte e snelle case dai tetti aguzzi, una abbracciata all’altra a formare un singolare tessuto urbano, sono arrivata davanti alla spettacolare facciata di Santa Maria della Piazza, che non avevo mai visto, neanche in fotografia, pur essendo uno dei capolavori dell’architettura romanica del nostro Paese. La chiesa, in un piccolo spazio non lontano dal porto, si presenta allo sguardo con l’apparenza di un merletto candido, una sorta di filato marmoreo, come se alla tecnica del costruire si fosse congiunta l’antica sapienza del ricamo. Un’immagine davvero sorprendente, tanto più in contrasto con l’interno austero e spoglio dell’edificio, dove non sembra possibile attività mentale diversa dalla preghiera. Più che una semplice visita un’autentica visione, ma il giorno dopo, partendo da Macerata la mia guida, un’amica, me ne promette un’altra. E quando arriviamo alla nostra prima meta, dopo un breve viaggio lungo la provinciale che attraversa il dolce paesaggio collinare marchigiano, capisco che non scherzava.

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Sulle prime è difficile credere che la costruzione che abbiamo davanti sia una chiesa. Fa pensare a un castello o a una fortezza. Un piccolo viale fiancheggiato da due bassi edifici conduce a un imponente portale ad arco dietro il quale si apre il piano inferiore, sormontato dalla mole di una seconda architettura, con una ben più sottolineata entrata a strombo in marmo, e da due grandi torri. È una delle più antiche abbazie della Marca maceratese, San Claudio al Chienti, il fiume che dà il nome alla valle, nella campagna sottostante Corridonia (un tempo Pausola, ora così in omaggio a Filippo Corridoni, il sindacalista rivoluzionario morto sul Carso).

Se tutt’intorno verdi prati si sono preservati a invitare alla quiete, la costruzione ha qualcosa di guerresco, ed è così singolare da favorire molte fantasiose ipotesi intorno alla sua origine – un ottimo segno, perché quando la storia si tinge di leggenda vuol dire che non se n’è perso il timbro simbolico e i fantasmi anche architettonici del passato sono ancora vigorosi. Gli storici hanno stabilito che, sui resti di un antico sito del V secolo, attorno all’anno Mille ha cominciato a sorgere la fabbrica attuale, considerata uno dei più importanti edifici romanici delle Marche. Ma l’amica Lucia Tancredi che mi guida mi racconta la più spericolata tra le leggende del luogo. Pugliese del Gargano di nascita, Lucia abita fin dai suoi primi anni a Macerata e alla terra marchigiana offre non solo amore ma attente ricerche, che hanno visto la luce in un volume prezioso per chi volesse dedicare una vacanza più lunga della mia, che si consumerà in meno di quarantotto ore, a questa terra: Racconti di viaggio. Le città d’arte nella Marca maceratese (edizioni Quodlibet).

Racconti, perché muoversi nello spazio non basta: bisogna anche viaggiare nella fantasia, come aveva fatto appunto don Giovanni Carnevale, l’artefice della leggenda, un salesiano appassionatamente devoto a questa suggestiva abbazia. In effetti, l’edificio è così singolare che, prima di recenti studi che ne hanno evidenziato l’affinità con modelli occidentali di area tedesca e poi lombarda, era stato accostato a forme bizantine o ancora più orientali, nel groviglio storico dell’Alto Medioevo in cui le maestranze si muovevano come uccelli migratori tra il Medioriente e le coste mediterranee ovunque ci fosse lavoro, e forme analoghe tra edifici lontani nello spazio, tra Nord e Sud e tra Est e Ovest, ne erano il risultato. Ma l’audace salesiano si era spinto oltre i suggerimenti formali: datando l’impianto della chiesa attuale all’epoca carolingia, tra l’VIII e il IX secolo, l’area di San Claudio sarebbe stata a suo dire la vera Aquisgrana, la capitale dell’impero romano e cristiano di Carlo Magno…

La pianta della chiesa si articola intorno a quattro pilastri a formare una croce greca iscritta in un quadrato, e nella oscurità della parte inferiore il visitatore si sente trascinato in altri luoghi e soprattutto in altri tempi. Anche il santo cui l’abbazia è dedicata è un po’ misterioso: nell’abside, in un affresco di uno sconosciuto artista locale, san Claudio appare come una sorta di falegname con in mano martello, spatola e cazzuola. Era, pare, un artista cristiano che si era rifiutato di scolpire una statua di Esculapio, ragione per cui l’imperatore Diocleziano lo aveva fatto chiudere in una scatola piombata piena di scorpioni. Il male è in agguato e bisogna difendersi: e infatti la chiesa ha davvero un aspetto difensivo, soprattutto per le due grandi torri circolari che la fiancheggiano – torri di avvistamento dei nemici con le loro slanciate bifore e non campanili – ma anche per la successione delle alte absidi nel retro, vere e proprie muraglie impossibili da scalare.

Lascio a malincuore San Claudio con la sua atmosfera mistica e insieme guerresca, come a indicarci che l’anima e i suoi misteriosi movimenti vanno protetti con cura dalle insidie del mondo. La mia destinazione finale è il borgo di Montecosaro, dove la sera dovrò partecipare a un incontro letterario, ma proprio lì la mia amica ha in serbo una nuova visione, non prima però di esserci fermate al ristorante che dall’abbazia di San Claudio prende il nome, che alterna una deliziosa cucina locale a piatti per ogni palato.

Dopo un breve viaggio siamo di nuovo di fronte a mille anni di storia: la chiesa di Santa Maria a piè di Chienti, detta dell’Annunziata. Anche questo monumento è una delle più belle espressioni dell’architettura romanica non solo delle Marche, e la sua facciata sobria e slanciata, un’altezza nordica sotto il sole italiano, infonde un’aura di spiritualità al paesaggio circostante. Uso la parola «aura» non a caso: malgrado la prepotenza e le manipolazioni operate sul territorio e la celebre riflessione di Walter Benjamin sulla sua scomparsa, da certi luoghi d’Italia, non troppo frequentati e come custoditi amorevolmente da qualche misterioso genius loci, emana un’atmosfera particolare difficile da descrivere, qualcosa che ispira ammirazione e rispetto intrecciati a un sentimento religioso, che non riguarda solo i pellegrini devoti. Che qui, in questa filiazione dei monaci benedettini della laziale abbazia di Farfa, circolavano a frotte, tanto che c’è un coro con deambulatorio e una raggiera di piccole absidi che permettevano la devozione ai fedeli di passaggio senza disturbare le funzioni.

Dopo una lunga sosta nel protettivo silenzio della chiesa, ancora in macchina verso la vicina Montecosaro, un piccolo paese inserito del tutto giustamente tra i borghi più belli d’Italia, arroccato su un’altura già abitata dai Piceni che vi hanno lasciato lo scacchiere a impianto ortogonale delle strade. Tutto è prezioso – chiese, palazzi, il teatrino ottocentesco, la collegiata – ma l’incanto è perdersi nelle sue piccole strade e tra le vecchie case dove arriva il vento fresco dell’Adriatico in cui, dieci chilometri più avanti, sfocia il fiume Chienti. La meraviglia è assoluta quando apro la finestra del mio albergo, La Luma: il pomeriggio sta finendo, il sole è alle nostre spalle, la valle si stende fino al mare, lo spazio sembra non avere confini in quella tonalità di luce azzurrina che dalla costa riverbera, sfumandolo, sul verde della campagna.

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