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A tu per tu con Mr Pulitzer

Nel suo sguardo il bisogno di urlare contro quella violenza verbale e fisica subita solo per il fatto di essere nero. Chi è Colson Whitehead l’ultimo vincitore del premio Pulitzer per la fiction con “I ragazzi della Nickel”

di Alessandra Tedesco

4' di lettura

L'incontro con Colson Whitehead è avvenuto a settembre, all'uscita in Italia di I ragazzi della Nickel (Mondadori - traduz. Silvia Pareschi), romanzo che il 4 maggio ha vinto il Pulitzer per la fiction, facendo fare il bis allo scrittore afroamericano che già se lo era aggiudicato nel 2017 con La ferrovia sotterranea (Sur - traduz. Martina Testa). Avevo iniziato a leggere I ragazzi della Nickel una sera di fine agosto e conoscendo la fama di Whitehead mi aspettavo un romanzo di qualità. Eppure non immaginavo quanto quel libro potesse coinvolgermi tanto da farmi spegnere il tablet alle cinque del mattino perché una volta iniziato, no, non si poteva interrompere.

Non sono molti i libri che fanno questo effetto e il romanzo di Whitehed c'era riuscito non solo per la trama dolorosa e avvincente, ma anche per come quella voce letteraria era riuscita a dar voce ai personaggi. In primo piano Elwood ragazzino nero di grandi speranze destinato al collage nonostante le origini umili, che negli Stati Uniti fanno la differenza nel percorso di studi e di vita soprattutto se si parla dell'America dei primi anni 60 profondamente segnata delle leggi razziali. Elwood finisce per errore alla Nichel, una scuola-riformatorio dove dovrà fare i conti con la violenza selvaggia da parte delle guardie. Una storia di fiction ispirata a quanto accaduto realmente per decenni nella “Dozier School” in Florida dove i ragazzi neri venivano pestati a sangue e in alcuni casi uccisi (scandalo scoperto nel 2014 con il ritrovamento dei resti di alcune vittime).

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I ragazzi della Nickel è un romanzo aspro, duro, pieno di violenza, quasi un pugno allo stomaco. Intenso e molto bello. Da quella notte diventata quasi alba nella lettura, passano poche settimane e finalmente arriva il faccia a faccia con l'autore che tante emozioni ha suscitato. Succede che quando si è amato molto un romanzo si ha l'idea che lo scrittore sia quasi un amico con cui bere un caffè e parlare indifferentemente di cose intime o del tempo. E invece quello scrittore non sa chi tu sia, ti vede per la prima volta e sei l'ennesimo giornalista che probabilmente gli farà le solite domande. Colson Whitehed è scrittore di razza, evidentemente avvezzo alle interviste e in primo momento è come se “parlassimo del tempo”.

«Era l'estate del 2014 quando ho letto un'inchiesta sulla Arthur G. Dozier School. Era una storia della quale si era scritto molto, soprattutto sui quotidiani della Florida settentrionale, ma questa era la prima volta che ne sentivo parlare. Stavano riaprendo le tombe senza nome per cercare di capire chi vi fosse sepolto. Leggendo le storie dei sopravvissuti, soprattutto bianchi anche se la maggior parte degli studenti in quella scuola era afroamericana, mi sono chiesto che tipo di storia avrei potuto ricavare dalla parte nera del college. Ho scelto di fare iniziare il libro nel 1963 perché era il culmine delle leggi Jim Crow e della segregazione e discriminazione nel Sud, ma era anche il momento in cui i movimenti per i diritti civili stavano acquistando forza», mi racconta.

Andiamo avanti parlando dei personaggi del romanzo e soprattutto del protagonista Elwood, affascinato da Martin Luther King e dagli altri paladini della lotta per i diritti civili, profondamente idealista, che alla Nickel stringe amicizia con Turner, decisamente diverso da lui, molto pragmatico, che si pone come obiettivo solo quello di arrivare a fine giornata senza essere picchiato.

Ma è quando parliamo dell'oggi, del razzismo nell'America di Trump, che Colson Whitehed si scalda. E allora dal “parlare del tempo” iniziamo a parlare di qualcosa di più intimo, che evidentemente tocca corde profonde nello scrittore afroamericano.

«L'America è estremamente razzista. Chi non ha votato Obama alle ultime elezioni è stato contento di aver portato un razzista, misogino e demagogo alla Casa Bianca e tutta questa gente odiosa stava solo aspettando qualcuno che desse loro il permesso di agire. Ora i crimini di odio, i crimini razzisti e gli episodi di antisemitismo sono cresciuti rispetto a prima. Trump ha permesso alla gente di tirare fuori il peggio di sé, allo stesso modo in cui lui ha concesso a sé stesso di esprimere il peggio di sè», mi dice Whitehead con un sorriso amaro e una punta di sarcasmo, consapevole che forse qui in Italia una giornalista bianca non può comprendere fino in fondo cosa possa essere la vita quotidiana di un nero.

«In tema di sistema carcerario e di brutalità della polizia le cose sono peggiorate con la privatizzazione delle carceri che cercano solo il profitto. Oggi possiamo registrare le brutalità della polizia sui nostri smartphone, il che però ci fa pensare a quante cose sono successe e non sono mai state documentate, perché non avevamo la tecnologia. L'America era razzista duecento anni fa, lo era nel 1963 e lo è ancora adesso. Le persone fanno cose terribili e, come Elwood, anche noi cerchiamo di capire come poter sopravvivere in un sistema che cerca di schiacciarci e come lasciare il mondo in condizioni migliori di come lo abbiamo trovato», aggiunge.

Dietro la storia di Elwood, c'è la storia di tanti ragazzi, di chi è passato veramente alla Dozier School, ma anche di chi pur non finendo in riformatorio quella violenza verbale e fisica l'ha subita solo per il fatto di essere nero. Nel 1963 come oggi. E questo Colson Whitehead ha voglia di urlarlo al mondo. Questo mi è parso di intuire nelle sue parole, ma soprattutto nel suo sguardo, la prima volta che ho incontrato Mr Pulitzer.

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