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Abete risponde a Franceschini: «Più spazi decisionali a imprese che investono in cultura»

Abete contro una mano pubblica che vorrebbe, per le aziende, un ruolo non da protagoniste ma da mere finanziatrici

di Raoul de Forcade

Luigi Abete agli Stati Generali della Cultura di Torino

3' di lettura

Bisogna pensare «non a partnership tra pubblico e privato ma a partnership tra pubblico e imprese, che è diverso». Luigi Abete, presidente dell’Associazione imprese culturali e creative ha riassunto così il suo pensiero sul rapporto, complesso, tra istituzioni e aziende, sottolineando, con vis polemica, le difficoltà che hanno le imprese a confrontarsi con il Mic e altri soggetti pubblici, nel momento in cui vogliono investire nel settore dei beni culturali.

Abete, nel corso del dibattito intitolato Tra pubblico e privato: lo stato dell'industria culturale italiana (tenutosi durante gli Stati generali della cultura a Torino) si è contrapposto a Massimo Osanna, direttore generale Musei (ed ex numero uno della soprintendenza di Pompei) ma ha anche polemizzato a distanza col ministro Dario Franceschini.

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Imprese poco considerate

«Nel dibattito di oggi - ha sottolineato Abete - la parola impresa è stata poco presente. Chiediamoci una cosa: negli investimenti e nei progetti culturali l’impresa è un protagonista o solo un partecipante finanziatore? Chi fa impresa lavora duramente da mattina a sera e le sue scelte vanno rispettate. Nel libro del ministro Franceschini (intitolato Con la cultura non si mangia? ndr), la parola impresa non c’è mai, si parla di pubblico e privato inteso come terzo settore, come Fondazioni e come no profit. C’è l’accezione delle imprese viste come risorse ma non si parla della dimensione progettuale delle imprese».

Osanna ha convenuto sul fatto che «bisogna cambiare paradigma nel rapporto tra pubblico e privato. La legge Ronchey (che nel 1993 ha dato la possibilità ai privati di avere in concessione la gestione dei musei, ndr) ha funzionato bene nei primi anni e solo in alcuni casi, non in tutti. Ora bisogna lavorare, come prevede il Codice degli appalti, al partenariato tra pubblico e privato che crea un rapporto di collaborazione tra i due soggetti, superando quello tra concedente e concessionario impostato dalla Ronchey. Ci sono, ad esempio, 440 musei che possono essere sottoposti a un rapporto di partenariato».

Massimo Osanna, direttore generale Musei, intervistato da Marco Carminati agli Stati Generali della Cultura, a Torino

Donazioni secondo coscienza

L’impostazione di Osanna non è piaciuta, però, ad Abete che, in primis, ha sottolineato il concetto per cui «chi vuol fare donazioni le deve fare in coscienza e senza essere sollecitato. C’è una legge dello Stato che consente, a chi può e pensa che sia un buon utilizzo del denaro, di farlo. Non credo che le imprese debbano essere messe sotto schiaffo psicologico se non lo fanno».

E poi, ha aggiunto, «l’impresa fa l’impresa: si pone un obiettivo, investe, crea occupazione, spera di raggiungere l’obiettivo che si è posta e a volte perde. Noi abbiamo migliaia di luoghi abbandonati in Italia, non si può pensare solo al Colosseo o a Pompei. Facciamo un bell’elenco di quelli che sono abbandonati e chiediamo se c’è un’azienda che, in una logica di partenariato pubblico-privato, voglia rilanciarne qualcuno. Non si può dire, ad esempio, a un imprenditore: noi vogliamo rilanciare quella determinata abazia, tu vuoi farlo? È l’impresa che deve valutare se ha una possibilità, se può diventare un nuovo attrattore».

Occorre partnership pubblico-impresa

La procedura, poi (partenariato o altro), ha proseguito Abete, «non è una discriminante: qualcuno deve decidere se si vuole coinvolgere il mondo dell’economia privata, che si esprime tramite le imprese, nei processi di valorizzazione degli asset culturali del nostro Paese: sì o no? Questa è la domanda. Se poi lo si vuol coinvolgere solo limitatamente ad alcune cose, e non a tutte, è una questione di scelte politiche. La partnership non deve essere pubblico-privato ma pubblico-impresa. È una cosa ben diversa. Bisogna prima verificare se un luogo, o un asset culturale, secondo qualcuno ha la possibilità di essere sviluppato. Se ce l’ha, bisogna vedere quali sono le modalità per svilupparlo. Non si può partire al contrario».

Tutto questo anche perché, ha ricordato Abete, «la cultura è uno dei mercati che, insieme al turismo, ha subito i peggiori effetti negativi con la pandemia. Ci sono state aree di servizio in cui le aziende hanno avuto riduzioni dal 70 al 90% dei ricavi. E ci lasciamo alle spalle una stagione di misure di sostegno, alle aziende del comparto culturale e creativo, insufficienti, utili a dare solo un ristoro parziale agli operatori della filiera».


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