il libro di piccone

Accanto all’impresa ci deve essere un’economia sociale

di Beniamino A. Piccone

(IMAGOECONOMICA)

3' di lettura

Esauritosi il motore del capitalismo pubblico con la chiusura dell’Iri, le grandi imprese private non hanno saputo prendere il testimone e trainare il Paese. I grandi imprenditori hanno trascurato colpevolmente l’interesse dell’impresa mirando solo al loro «particulare». In molti casi abbiamo assistito a situazioni dove il capitale investito dall’azionista di riferimento era esiguo, con grande peso dei debiti finanziari e dei mezzi conferiti dagli azionisti di minoranza, il cosiddetto «other people’s money» descritto da Louis Brandeis all’inizio del XX secolo.

Verrebbe da dire che la teoria imperante dello shareholder value sia morta. Ma le disuguaglianze di reddito e di ricchezza che si sono sviluppate negli ultimi decenni rendono difficile correggere la rotta. Ha scritto Bragantini: «Nel 2014 Martin Wolf scrisse sul “Financial Times”, non sulla “Pravda”, che il capitale, come una polizza di assicurazione, protegge l’impresa da rischi avversi. L’impresa non ha padroni e neanche gli assicuratori lo sono».

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Il 23 aprile 1955 Adriano Olivetti, in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli, rivendicava la necessità di guardare al di là del mero profitto. Come Tommaso Padoa-Schioppa indica l’impresa come istituzione della società tutta, cosí Olivetti alzava lo sguardo verso meta-obiettivi:«Il segreto del nostro futuro è fondato, dunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell'azienda. Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di piú affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? […] La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accentandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuove ove non vi sia piú differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita piú degna di essere vissuta».

Pensare solo al profitto è mortale. Sergio Marchionne, il visionario a capo della Fiat per ben quattordici anni, improvvisamente scomparso il 25 luglio 2018, rimarcava che «l’efficienza non è – e non può essere – l’unico elemento che regola la vita. C’è un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dovere di fare i conti con la propria coscienza. C’è una realtà là fuori che non può essere trascurata. […] Il perseguimento del mero profitto, scevro da responsabilità morale, non ci priva solo della nostra umanità, ma mette a repentaglio la nostra prosperità a lungo termine».

«Soldi per far soldi per far soldi. Se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una», scriveva Giorgio Bocca sul «Giorno» in visita a Vigevano nel 1962, lamentando che in quella città non ci fosse nemmeno una libreria. Se negli anni Sessanta c’erano 1000 aziende che producevano 30 milioni di scarpe l’anno, oggi sono 15 e non arrivano a 800 addetti. Se la crisi nel settennio 2009-2015 ha morso, nel settore calzaturiero di Vigevano addirittura ha sbranato intere realtà.

Mentre il distretto di Vigevano si è notevolmente ridotto, quello calzaturiero del Veneto ha visto uno sviluppo encomiabile. Le radici sono nella zona della riviera del Brenta, tra Padova e Venezia. Nel 2017 il fatturato ha superato i 2 miliardi di euro, con l’export pari al 90% e una marcata specializzazione nelle scarpe femminili di lusso.

Non sono stati pochi quindi gli imprenditori eccellenti che sono stati capaci di uscire dal mercato dei prodotti standardizzati, dove la competizione mondiale è efferata, e di far valere la qualità, il design, i valori simbolici del made in Italy che consentono il cambiamento di gamma e l’allargamento dei margini e dei mercati.

L’insegnamento di Adriano Olivetti è dunque piú che mai attuale. Se l’imprenditore non si eleva culturalmente, non esce dalle logiche familistiche, non investe su nuovi prodotti e nei nuovi circuiti distributivi digitali, non delega a manager competenti, non è disposto a combattere apertamente sui mercati globali, è destinato a uscire sconfitto.

Ma, accanto all’imprenditore, ci deve essere un’economia sociale di mercato capace di interpretare i tempi che stiamo vivendo. Tutte le classi sociali devono impegnarsi in modo corale per invertire le aspettative. Uscire dall’invidia, dal rancore e dalla nostalgia. Tommaso Padoa-Schioppa ha trovato le parole giuste quando auspicava l’avvento di uno «spirito animatore, una ambizione nazionale»: volontà di «eccellere come Paese, fiducia nelle sue forze, sguardo lungo».

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