Acqua, triplicati gli investimenti in infrastrutture ma ora c’è il rischio “ri-pubblicizzazione”
di Giorgio Santilli
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Non solo Tav e grandi opere bloccate. C’è un settore economico che ha cominciato a macinare investimenti infrastrutturali al ritmo di tre miliardi l’anno (contro il miliardo del 2013) e ora rischia di essere riportato indietro dalle decisioni della maggioranza giallo-verde. È la gestione del ciclo integrato dell’acqua: distribuzione (acquedotti), depurazione, fognatura. M5S propone una legge, già in discussione alla Camera, che impone la ripubblicizzazione per tutte le gestioni: enti di diritto pubblico o aziende pubbliche, decadenza al 2020 delle concessioni. E sposta il finanziamento degli investimenti dalla tariffa ai fondi pubblici.
Alcuni centri di ricerca (Ref, Oxera) convergono su una stima dei costi per lo Stato della pubblicizzazione intorno ai 15 miliardi una tantum più 6-7 miliardi di costi aggiuntivi annuali. La stragrande maggioranza di gestori e Ato (gli ambiti territoriali ottimali formati dagli enti locali) sono fortemente contrari. Quello che però al momento conta è che negli ultimi cinque anni, da quando cioè alla fine del 2013 l’Autorità per l’energia (ora Arera dopo aver assorbito Reti e Ambiente) assunse la regolazione del settore, gli investimenti pianificati sono triplicati passando dai 1.130 milioni del 2013 ai 3.577 milioni del 2018: l’80% arriva dalla tariffa (con 493 milioni vincolati al miglioramento della qualità di servizio e reti), solo il 20% da contributi pubblici. Non solo. «Il tasso di realizzazione degli investimenti previsti - afferma Stefano Besseghini, presidente dell’Autorità da quattro mesi - è significativamente migliorato, passando da valori che si attestavano attorno al 50% negli anni ante regolazione a circa l’80% attuale». Nel 2017 è stato dell’88,8%. La tariffa ha registrato aumenti medi del 2,7% annuo nel periodo 2012-2019.
Margini di miglioramento non mancano: pesano i tempi lunghi per le autorizzazioni, le difficoltà di applicazione del codice appalti, il permanere di uno squilibrio al Sud, l’esigenza di rivedere progetti spesso carenti. Una novità importante è arrivata con le regole fissate dall’Arera che impongono ai piani di ambito di destinare risorse alla qualità del servizio e delle reti. Il livello di investimenti va, però, ulteriormente accresciuto per far fronte a una rete sempre più vecchia: le perdite restano altissime, al 41% (con punte al Sud del 51%) e con il piano attuale di interventi saranno ridotte al 33% in cinque anni (40% al Sud). Fondi Ue e nazionali devono crescere ancora. Il governo ha mostrato di voler fare la propria parte con l’istituzione, in legge di bilancio, di un fondo di 400 milioni.
I passi avanti fatti arrivano dalla «stabilità, certezza e chiarezza del quadro regolatorio» e di quello tariffario, in particolare. Il nuovo corso dell’Autorità riconosce il lavoro fatto dal collegio precedente e chiede «continuità». Senza però nascondere che alcune distorsioni vanno corrette, per esempio nell’uso del Foni, una delle componenti tariffarie destinata agli investimenti. «Taluni operatori - ha detto l’8 gennaio alla Camera Besseghini - hanno impiegato le nuove risorse non solo per gli investimenti, ma anche per garantire maggiori benefici agli azionisti. Sul punto, l’Autorità, venuta a conoscenza di simili casi, ha recentemente precisato le necessarie modalità di rendicontazione». D’altra parte, a spingere gli investimenti c’è proprio l’innovazione introdotta dall’Autorità nel 2014 con il metodo tariffario: la parte dell’aumento tariffario destinato agli investimenti scatta solo se la spesa è stata sostenuta e contabilizzata, non - come in passato - semplicemente pianificata.
Come e perché la maggioranza attuale - che dice e scrive nel Def di considerare prioritario il rilancio degli investimenti infrastrutturali- vuole interrompere bruscamente questa stagione per aprirne una radicalmente nuova? La proposta di legge (AC 52) viene dal M5S, prima firmataria la deputata Federica Daga, che ha trascritto la proposta popolare presentata nella scorsa legislatura dai Forum per l’acqua (con un record di 400mila firme). È, in sostanza, la proposta della componente più agguerrita del popolo del referendum del 2011 che ottenne 27 milioni di voti favorevoli alla richiesta di «fermare la privatizzazione dell’acqua». Richiesta tutta politica perché le norme sottoposte a referendum non impedivano nessuna delle tre forme di gestione (in house, concessione a privati tramite gara, spa miste pubblico-privata) ma limitava gli affidamenti senza gara a spa pubbliche e imponeva un limite minimo di capitale privato al 40% nel caso di modello misto. Da allora «l’acqua pubblica» è diventata una parola d’ordine del M5S così come la volontà di limitare o azzerare «gli utili delle multinazionali dell’acqua». Con una storica sentenza del marzo 2014 (779/2014) il Tar Lombardia ha però considerato legittimo rispetto agli esiti del referendum il nuovo metodo tariffario adottato dall’Autorità, legittimando e stabilizzando il nuovo corso idrico post-referendario.
La proposta Daga chiede ora di abbandonare il sistema attuale con una virata a 180 gradi che dovrebbe portare a un sistema pubblico così organizzato: obbligo di gestione agli enti locali in economia o tramite in house con la conseguente ripubblicizzazione di gestori misti, finanziamento prevalentemente pubblico degli investimenti con una riduzione del carico sulla tariffa, possibilità di tornare a gestioni comunali, eliminando il vincolo delle gestioni «uniche» negli Ato.
È in discussione alla commissione Ambiente della Camera ed è una priorità del M5S, deciso a puntare anche su questa proposta per recuperare consenso nell’elettorato duro e puro della prima ora. Non è chiaro, al momento, se la Lega, che è rimasta alla finestra nella prima fase delle audizioni, sia disposta a dare spazio all’alleato di governo su un altro tema-bandiera o a un certo punto frenerà, anche sotto la spinta dell’opposizione durissima del mondo dell’impresa privata e pubblica. «L’atteggiamento della Lega sarà decisivo - dice Chiara Braga, responsabile Pd in commissione Ambiente e prima firmataria della proposta di legge alternativa a quella grillina (AC 773) - per capire se farà strada una proposta tanto dirompente. Uno snodo fondamentale, perché è un punto allettante per la Lega nelle zone in cui governa, è quello che consente di tornare a una piccola dimensione comunale di gestione. Un errore grave perché si tornerebbe alla frammentazione gestionale ed è chiaro che i comuni non hanno le risorse per finanziare gli investimenti necessari».
Utilitalia, che associa 470 imprese di servizi pubblici, si è fatta sentire nelle audizioni: non limitare le forme di gestione adottabili in base alle regole Ue, preservare un approccio industriale alla gestione «non possibile con Aziende speciali o enti pubblici» e di un livello dimensionale almeno provinciale, preservare la regolazione dell’Arera, mantenere la tariffa come veicolo principale per il recupero dei costi. Si sottolinea, poi, che la trasformazione immediata di forma societaria in aziende speciali o enti pubblici «avrebbe effetti di decadenza sulle concessioni, porterebbe ingenti costi economici (connessi al risarcimento degli investitori privati e al subentro nei finanziamenti in essere) e difficoltà gestionali».
E proprio sui costi del passaggio al modello proposto da M5S si sono esercitati Ref Ricerche, che fra i centri di ricerca economici è quello più attento al settore idrico con il suo laboratorio ad hoc, ed Oxera, con uno studio preparato per Utilitalia.
Per Ref Ricerche i costi una tantum del passaggio di regime sono quantificabili in 10,6 miliardi per il rimborso dei finzanziamenti accesi dai gestori e 4-5 miliardi per l’indennizzo ai gestori estromessi. A questi si aggiungerebbero costi ricorrenti annuali per 2 miliardi per garantire il minimo vitale gratuito per tutti (la proposta Daga prevede 50 litri al giorno per abitante) e 5 miliardi l’anno di risorse pubbliche per gli investimenti in sostituzione della copertura tariffaria.
Per Oxera i costi una tantum ammonterebbero a 8,7-10,6 miliardi per la cessazione delle convenzioni, 3,2 miliardi per il rimborso del debito finanziario, 0,7 miliardi per il rimborso del debito a carico degli enti locali, 2 miliardi di mancato incasso dei canoni di concessione. Si aggiungono tra i 4 e i 5,8 miliardi di costi annuali per finanziare investimenti pubblici (2,3-4,1 mld) e consumo minimo vitale (1,7 mld).
Anche Anea, che rappresenta la quasi totalità degli Ato e degli enti locali che ne fanno parte, sottolinea la necessità di non stravolgere il modello attuale. «L’aumento degli investimenti nel settore idrico fino agli attuali 166 euro per abitante a livello nazionale è stato costante negli ultimi anni ed è innegabile che esso derivi principalmente dalla stabilità derivante dal nuovo e consolidato assetto regolatorio del settore con la doppia via nazionale-locale. Anche la razionalizzazione degli enti di governo dell’Ambito ha avviato, in alcune Regioni, la parallela aggregazione dei gestori, non solo con forme tradizionali di accorpamenti gestionali come fusioni e incorporazioni aziendali, bensì soprattutto mediante forme innovative di stretta collaborazione e di vere e proprie reti di impresa».
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