SBAGLIANDO SI IMPARA

Adattarsi agli altri senza snaturarsi: questo è il problema nelle relazioni

La soluzione è nel rendere naturale l’adattamento alle diverse situazioni senza perdere, di conseguenza, le proprie caratteristiche

di Massimo Calì *

(AFP)

3' di lettura

In uno di questi articoli, tempo fa, ragionavo su questioni legate all’adattamento comunicativo nelle nostre relazioni. Il tema nasce dalla frequenza, nelle aziende con cui lavoro, di incontri con persone che manifestano la loro difficoltà nell’adattarsi all’altro per paura di perdere la propria spontaneità (e sincerità, verità, autenticità). Sulla spontaneità già mi sono espresso: se è “la tendenza abituale a comportarsi con naturale franchezza e immediatezza”, in pratica spesso coincide col fare la prima cosa che ci viene, come ci viene. E non è sempre la cosa più utile.

Esploriamo le altre parole, sospendendo la naturale propensione a aderire ad esse in modo valoriale, per provare a dire se siano necessariamente funzionali ad una buona relazione e soprattutto se siano automaticamente escluse nel momento in cui ci adattiamo nella relazione.

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La sincerità, intesa come “corrispondenza di un’espressione o di un comportamento all’effettivo modo di sentire o di pensare”, ci pone il primo grande quesito: sentire o pensare? E se sentire e pensare divergono? Basterebbe questo per dirci che la sincerità implica una visione, una mediazione dell’individuo con quello che sente e pensa. Ed è una delle caratteristiche che permette all’attore di stare su un palco ed essere sincero, e quindi credibile, quando interpreta un personaggio distante da sé.

Sulla verità, in epoca di complessità elevate, interconnessioni, overload informativo e fact checking, non mi dilungherei: dato il contesto in cui ci muoviamo, le sfaccettature sono sempre talmente tante che la verità, intesa come unica e inconfutabile, rimane un miraggio forse nemmeno desiderabile se percepiamo le verità “assolute” come ineluttabili semplificazioni della realtà.

L’autenticità “continua ad apparire come un concetto elusivo”. Cito il bell’articolo di Annamaria Testa sul suo sito in cui approfondisce il tema, rendendolo molto meno elusivo attraverso aspetti filosofici, pratici e lucidità sulle questioni che pure rimangono aperte: “le persone sarebbero troppo complicate, sfaccettate e spesso conflittuali per poter valutare l’autenticità di qualcuno alla luce di un suo (forse inafferrabile) “vero sé”.

Come ne usciamo? Nell’adattarci all'altro, alla relazione, al contesto (nelle modalità, non certo aderendo acriticamente ai contenuti) automaticamente escludiamo il poter essere sinceri, autentici e veritieri? Accantono la questione filosofica per promuovere un pensiero più prosaico, ma anche più concreto del concetto di adattamento comunicativo. E lo faccio con una metafora che uso spesso nelle aziende.

Ciascuno di noi ha nell'armadio più capi. Se penso al mio, ci sono la vecchia maglietta dei tempi del liceo, ormai brutta ma tanto comoda, maglie e felpe meno malridotte, pantaloni più o meno sportivi o eleganti, camicie rigate ma anche bianche elegantissime, giacche che vanno con tutto e abiti grigi da cerimonia, e così via. Quando sono a casa da solo, sul divano (quindi non in relazione, se ci pensate) la vecchia t-shirt mi piace. Se ricevo qualcuno, compresi gli amici antichi quanto la maglietta, finisco per cambiarla. Non perché me ne vergogno e voglio nasconderla ma perché io per primo non mi sento del tutto a mio agio con quella maglia, che in fondo non mi “rappresenta” più agli altri, non è più adatta (coincidenza, usiamo l’aggettivo adatta proprio parlando di adattamento).

Più la situazione sociale / relazione sarà lontana da “divano da solo”, più è probabile che mi richieda di vestirmi diversamente. Vero che la cosa può pesarmi se la situazione non mi è gradita, ma in tal caso l’adattamento è legato a decidere se partecipare o no. Se ritengo di farlo, è probabile che io mi senta a mio agio non nella t-shirt sdrucita ma in altri panni (maglie, felpe, giacche fino all’'abito scuro per una cerimonia particolarmente formale).

Questo mio adattamento implica non essere più me stesso, perché sul divano amo la mia vecchia t-shirt? Ebbene no: i miei altri indumenti mi rappresentano tanto quanto (e non si sentano esclusi coloro che comprano a casaccio perché disinteressati al tema: è una metafora). Potrei preferire la situazione divano e maglietta (soggettivo: alcuni di noi si vestono di tutto punto anche per buttare il pattume) ma rimango me stesso quando esprimo il mio gusto, il mio stile, la mia “personalità” adattando il mio abbigliamento alla situazione.

E come è vero che definiamo questa cosa “vestirci” (e non travestirci, che ha a che fare col non farsi riconoscere e sembrare altro), così adattarci non è sinonimo di snaturarci. Per questo, sempre metaforicamente, più ci abituiamo a sceglierci il maggior numero possibile di vestiti che ci rappresentino, “adatti” ai vari contesti, e più sarà veloce individuare quale indossare, rendendo sempre più naturale e spontaneo il nostro adattarci.

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