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C’è una foto che segna l’ingresso nel mondo letterario da parte di Ernesto Ferrero (nato a Torino nel 1938 e scomparso ieri, all’età di ottantacinque anni) ed è quella che lo ritrae, estivo e sorridente, mentre accompagna a Venezia Primo Levi, che avrebbe vinto il Premio Campiello con il romanzo La tregua. Siamo nel settembre del 1963. Ferrero sta compiendo i primi passi di un’importantissima carriera in seno all’Einaudi, dove è entrato come responsabile dell’ufficio stampa ma dove presto avrebbe ricoperto l’incarico di direttore letterario e, dal 1984 al 1989, quello di direttore editoriale.
Nonostante abbia lavorato anche per Garzanti e Mondadori, il suo nome resterà per sempre legato alla casa editrice di via Biancamano, alle riunione del mercoledì, ai riti austeri del fare libri come pezzi di un mosaico grande quanta la nazione. L’Einaudi rimane nella sua carta d’identità e non soltanto come uno dei tanti luoghi dove produrre copertine e risvolti, ma come una palestra pedagogica, una libera università da cui esercitare il magistero facendosi forza con quel sentimento di completezza, con quell’aria di felice conquista che si respira nelle pagine più ariose di I migliori anni della nostra vita (2005) e di Album di famiglia (2022).
A così tanta distanza di tempo, però, la foto insieme a Levi sancisce un’ulteriore chiave di lettura, si dilata nell’immaginario fino ad assumere il valore di una predestinazione tant’è che spesso, di recente, nel ricordare quel viaggio a Venezia, Ferrero gli attribuiva il significato di un’esperienza iniziatica. Levi, infatti, sarebbe stato per lui un maestro da cui attingere i segreti, una sorta di guida all’esercizio della scrittura vissuta mai come esibizione, un paradigma di letteratura morale da fissare bene nella mente per il proprio futuro di scrittore, poca conta se dedito al romanzo storico anziché a quello di ispirazione scientifica.
Di quel metodo, di quel rigore etico, di quella disciplina interiore, Ferrero sarebbe diventato a sua volta una vicenda esemplare per tutta le generazione venuta dopo e chiunque volesse mettersi sulla strada dei libri non ha potuto fare a meno di intercettare la sua sterminata produzione: da quella saggistica, dedicata non soltanto a Levi, ma anche a Gadda e Calvino, a quella narrativa, che avrebbe mirato a figure eccentriche e curiose come Cervo Bianco o Emilio Salgari, ingombranti e contraddittorie come Napoleone Bonaparte, scrutato però dagli occhi umili di un servitore (N., 2000, che si aggiudicò il Premio Strega), sconvolgenti e moderne come Francesco d’Assisi (Francesco e il sultano, 2019).
Tutto ciò in cui Ferrero si è cimentato, perfino le traduzioni di Louis-Ferdinand Céline o la lunga direzione del Salone del Libro di Torino, restituiscono un ritratto di intellettuale e di uomo che, per interrogare il proprio tempo e misurarsi con esso, ha preferito lasciarsi guidare dalla lezione manzoniana che metteva insieme etica e storia, ricerca d’archivio e immaginazione. Questi quattro elementi sono diventati la bussola d’orientamento per qualsiasi sua attività culturale e grazie a essi egli si è posto nei confronti della stagione attraversata come l’interprete più accreditato e autorevole, l’ultima voce di una tradizione che ha creduto nelle parole quale strumento adatto a sondare il mistero di quel che siamo e di quel che costruiamo. Così facendo, ha indossato i panni della Storia, ergendosi a padre nobile a cui interessava difendere un’idea di scrittura fondata sull’inviolabilità dei documenti senza tuttavia farsi asfissiare da essi, senza rimanere prigionieri di regole rigide e prive di creatività.
Per chi gli era intorno, anche quando l’appartenenza a una città come Torino poteva conferiva una patina di austerità sabauda al suo sguardo, non è stato difficile indovinare nei suoi occhi il guizzo vincente di chi si cimenta con un funambolico personaggio come Cervo Bianco (narrato per tre volte fino al più recente L’anno dell’indiano, 2023) o con una figura al limite dell’esotico come Salgari, a cui ha dedicato un romanzo eloquente sin dal titolo: Disegnare il vento (2011, Premio Selezione Campiello). Ferrero viveva nei personaggi che raccontava pur conservando un’apparenza di estraneità e chiunque, conoscendolo, sapeva che, quando osservava scorrere il mondo, da un momento all’altro gli poteva passare il lampo di un arrembaggio piratesco e il rullare di tamburi in guerra. O ancora, nei momenti di quiete, ripensare alle infinite combinazioni che sorgono dalle parole, sentirne la vertigine e, come egli stesso ha riferito di Calvino poche settimane fa (Italo, 2023), dover «scegliere quella giusta.
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