Addio a Monica Vitti, l’antidiva italiana che non si prendeva sul serio
L’attrice, lontana mille miglia dallo stereotipo della star, è stata l’epitome dell'antidiva e ha espresso il fascino della perfetta imperfezione. Ha sparigliato le carte dello stile
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
Si è spenta Monica Vitti, diva riluttante. I capelli scarmigliati; la voce roca, dal timbro inconfondibile; lo sguardo insieme languido e penetrante, sempre vivace, prensile, sottolineato dalla grossa riga di matita, da una passata energica di mascara, agli inizi dalle ciglia finte, poi da ombretti fumosi e polverosi dietro gli occhiali; infine gli abiti, invariabilmente con qualcosa, anche solo un piccolo dettaglio, non esattamente a posto: la Vitti, lontana mille miglia dallo stereotipo della star, e in particolare dal cliché pneumatico e voluttuoso della diva italica – quella genìa nazionalpopolare di matrone carnali e seducenti, intoccabili sul loro piedistallo, cementate nell'immaginario collettivo in un impasto di glamour e polvere di stelle, che dalla Lollo e dalla Loren arriva, ridotta a formula, al burro gallico della Bellucci – è stata l’epitome dell'antidiva. Quel prefisso “anti” lei lo ha fatto suo, con naturalezza e senza fanfara, assai prima che opporsi diventasse l'ennesima posa studiata a tavolino da publicist, pr e case di produzione.
Icona perfettamente imperfetta, ha attraversato le mode
Essere attrice ed essere donna non sono mai state qualità, men che meno attività, antitetiche per questa romana nata nel 1931 sotto il segno dello scorpione, fosca e complessa, solare e sensuale: Maria Luisa Ceciarelli – questo il nome all'anagrafe – ha regalato tutta la propria verve, la propria carnalità, ma anche i propri difetti – umani, troppo umani – e le proprie nevrosi a Monica Vitti, creando una icona sfaccettata e raggiungibile, perfettamente imperfetta perché, fuori dallo schermo, la perfezione è solo una opprimente utopia, un ideale paralizzante.
Lontano dai vitini di vespa, dalle tette generose, dalle mise infiocchettate nelle torri d'avorio degli atelier di Piazza di Spagna, la Vitti ha portato un soffio di realtà nell'Olimpo della settima arte, sparigliando le carte. Non ultime, quelle dello stile. Non a caso, ci fu molto invidiata, all'estero, negli anni Sessanta dei primi dubbi e delle prime crepe che incrinavano il sogno del boom a colpi di incomunicabilità ed esistenzialismi, diventando una icona di italianità nuova.
Con la stessa leggerezza che le ha consentito di passare dalle parti tormentate e problematiche nei film di Michelangelo Antonioni – memorabile la Giuliana di Deserto Rosso, nevrotica fino al midollo, dai capelli mogano al golfino nero – al ruolo di mattatrice della commedia all'italiana, la Vitti ha attraversato mode e modi portandosi dietro un'aura tutta sua: il glamour del tinello, la capacità leggiadra di apparir domestica anche nelle mise e nelle situazioni più splendenti. Una qualità concessa a poche, che le dive di oggi, sempre in posa, sconoscono del tutto.
Antidiva dall’aura tutta sua, capace di non prendersi sul serio
Mai in posa, invece, la Vitti ha sempre conservato la sciatteria garbata e travolgente della donna che non spende troppo tempo davanti allo specchio, che non si mira e rimira cesellando la propria beltà, ma che semplicemente vive, accettando errori, falli, capitomboli come parte del processo; come elemento eccitante, mai sminuente, del gioco delle parti. Sarà forse per quei capelli ribelli, proprio incapaci di stare a posto, o per quella maniera svagata di portare le collane di turchesi e gli orecchini di corallo con le bluse di seta e le giacche maschili; sarà per le sue gonne al ginocchio, di quella lunghezza infingarda che fa sempre scappar fuori un lembo di sottoveste; sarà, soprattutto, per quella sana e rara capacità di non prendersi affatto sul serio.
C'è una sensualità, una carnalità, nel suo modo di essere – persino nell'ultima versione pubblica, quella professorale, con gli occhiali – che è rinfrancante. Monica Vitti ha espresso il fascino della perfetta imperfezione. Capace di regalare carica erotica, senza erotismi di maniera, persino al golfino da bibliotecaria, per noi è al suo picco paradigmatico nella parabola di stile di Assunta Patanè in La ragazza con la pistola di Monicelli (1968). Ecco, nel mutar di panni della giovane donna sicula, che da svergognata di nero vestita diventa femmina emancipata con l'impermebile di ciré, c'era tutto il potere di fascinazione della bella Monica: l'accettazione del caos e dell'imprevisto. Ridendoci sopra, senza inutili seriosità, fino alla fine.
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