Africa, la scommessa degli Usa per adattare l’agricoltura al climate change
Il Dipartimento di stato Usa ha lanciato insieme alle Nazioni Unite e l’Unione africana un programma di ricerca sulla cosiddetta climate adaptation, l’adeguamento delle colture agricole a un’evoluzione climatica
di Alberto Magnani
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Investire sulla «adattabilità» delle colture africane, aumentandone la resistenza a una delle minacce più urgenti: il climate change. Il Dipartimento di stato Usa ha lanciato insieme alle Nazioni Unite e l’Unione africana, l’organizzazione che riunisce 54 paesi del Continente, un programma di ricerca sulla cosiddetta climate adapdation, l’adeguamento delle colture agricole a un’evoluzione climatica che insidia qualità e quantità delle rese agricole.
L’obiettivo è di concentrarsi su varietà diverse rispetto a prodotti di largo consumo come mais, frumento o riso, privilegiando quelle a minore diffusione e più alto potenziale nutritivo. È il caso di sorgo, teff o miglio, fino alle «centinaia di varietà di frutta e verdure tipiche dell’Africa», ha sottolineato l’inviato Usa per la sicurezza alimentare Cary Fowler.
L’obiettivo è aumentare la resilienza agli «stress» del clima
Sul lungo termine, l’ambizione è di contrastare la crisi alimentare del Continente e ridurne la dipendenza dalle importazioni, un appiglio che si è rivelato ancora più fragile con la doppia crisi Covid-Ucraina e le sua ricadute sugli approvvigionamenti di una regione appesa all’import dal «granaio d’Europa». L’Onu registrava, già nel 2021, quasi 280 milioni di africani ridotti alla fame, con un aumento del 60% rispetto all’anno precedente. Instabilità internazionale, inflazione e, appunto, cambiamento del clima stanno spingendo la soglia su valori anche più allarmanti.
Secondo dati della Banca mondiale, l’agricoltura incide su quasi un quinto del Pil africano e dà lavoro a circa la metà di una popolazione da 1,3 miliardi di persone, destinata a sfiorare il raddoppio a 2,5 miliardi entro il 2050. Le rese dei campi sono la fonte di sussistenza di una media di oltre il 60% degli africani, con picchi anche maggiori in alcune economie a sud e nord del Sahara. Da qui l’esigenza di interventi rapidi sulla sua salvaguardia, ma in un’ottica diversa da quella di un aumento netto dei volumi. Il principio del’adattamento al climatico non è “solo” quello di intensificare la produttività del settore, magari rincorrendo modelli importati dalle economie occidentali.
Si punta, semmai, a «creare un sistema che abbia maggiore resilienza allo stress del cambiamento climatico, garantendo un’agricoltura più stabile rispetto agli stress esterni» spiega Matteo Dell’Acqua, professore associato alla Scuola Sant’Anna di Pisa e coordinatore del progetto europeo di ricerca Focus-Africa. Quando si parla di cambiamento climatico, sottolinea, si pensa soprattutto all’innalzamento monstre delle temperature, con ricadute ancora più drastiche sulle crisi di siccità sofferte da aree come il Corno d’Africa o il Sahel. In realtà, «climate change non significa solo aumento delle temperature, ma aumento degli eventi estremi – dice –. Si parla non caso di una agricoltura climate ready, quindi di un’agricoltura che mantiene la stabilità delle rese in condizioni avverse. Un obiettivo che è proprio anche del miglioramento genetico».
L’equilibrio fra ricerca e domanda del mercato
Le ricerche sull’adattabilità delle colture non possono che passare da un confronto con i diretti interessati, gli agricoltori. Lo stesso inviato Usa Fowler ha ribadito che il processo dovrà rispondere «ai bisogni degli agricoltori e alla domanda del mercato», bilanciando i risultati di laboratorio alle esigenze di chi vive - letteralmente - delle rese dei suoi campi. L’attenzione, sottolinea, sarà comunque riservata a quelle specie «minori» che sono rimaste fuori dai radar della ricerca internazionale, pure offrendo una ricchezza di vitamine e micronutrienti preziosa contro i casi malnutrizione. Un report dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari ha rilevato che la sola Africa australe, la regione che va dall’Angola al Sudafrica, conta 18,6 milioni di bambini con crescita sottosviluppata.
Insistere sulla «diversificazione» delle varietà, dice Dell’Acqua del Sant’Anna, significa «esplorare una diversità che è molto presente nei sistemi agricoli africani: non solo diversità agronomica ma anche nutrizionale,visto che la capacità di altre specie possono lasciare a desiderare». Il limite più evidente è quello del mercato, visto che si parla di specie meno redditizie rispetto ai mais o frumento. La tendenza, però, può essere proprio quella di «lavorare su queste specie può portarla a essere redditizie e portarle a essere il mais e il frumento del domani».
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