Mezzogiorno

Agroalimentare, raddoppiano le imprese guidate dai giovani

Negli ultimi quattro anni nel Mezzogiorno le aziende di titolari con meno di 40 anni sono passate da 26.330 a 52.610 - Rapporto Ismea: «Colti i trend positivi dei consumi nazionali e internazionali»

di Alessio Romeo

L’agricoltura nelle regioni del Meridione è riuscita a superare le calamità del cambiamento climatico degli ultimi due anni.

3' di lettura

Nonostante le calamità da cambiamento climatico che hanno funestato soprattutto le ultime due campagne, colpendo in particolare alcuni comparti simbolo della produzione agricola del Mezzogiorno, l’agricoltura al Sud cresce più degli altri settori. Non solo: crescono le imprese guidate da giovani in un settore che più di altri soffre la mancanza di ricambio generazionale e sta dimostrando invece, proprio al Sud, una maggiore tenuta rispetto al Centro-Nord, soggetto a un calo strutturale del numero di aziende agricole. Negli ultimi quattro anni la crescita del numero di imprese dell’industria alimentare è stata costantemente maggiore per il Mezzogiorno che nel Centro-Nord. Nello stesso periodo, le aziende agricole guidate da giovani con meno di 40 anni sono praticamente raddoppiate passando, secondo le ultime due indagini infracensuarie dell'Istat, da 26.330 a 52.610 (oltre la metà del totale nazionale). Al Sud cresce anche, più che nel resto del paese, il ricorso alle polizze agricole, a conferma di una gestione imprenditoriale più “professionalizzata”.

Certo, secondo l'ultimo rapporto Ismea sulla competitività del settore agroalimentare del Mezzogiorno, questi andamenti possono essere interpretati anche come conseguenza della mancanza di alternative occupazionali al Sud e della storica caratteristica anticiclica del settore. Ma la lettura congiunta dei dati Istat sull’export e il moltiplicarsi di iniziative come i contratti di filiera autorizzano a pensare che negli ultimi anni l’attrattività dell’agroalimentare sia effettivamente aumentata, in particolare per i giovani, e che questo sia dovuto soprattutto alle prospettive sempre più interessanti che si aprono per le imprese meridionali in grado di allargare l’orizzonte di mercato al di là della domanda locale, che resta piuttosto asfittica, verso quella nazionale e internazionale.

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In ogni caso l’agroalimentare resta un comparto centrale nell’economia e nella società del Mezzogiorno se si pensa che il contributo dell’area al valore aggiunto del settore, pari a 18,5 miliardi, rappresenta quasi un terzo (il 31%) del totale nazionale, mentre il Sud contribuisce alla ricchezza complessiva nazionale per appena il 20 per cento. «In particolare – sottolinea l’analisi Ismea – è la produzione primaria a essere particolarmente importante, con un valore aggiunto della sola attività agricola di oltre 13 miliardi, il 40% di quello italiano, mentre l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco con 6 miliardi genera circa il 22% del valore aggiunto totale nazionale. Risultati generati da un tessuto produttivo costituito da oltre 340mila imprese del settore agricolo, quasi la metà (il 45%) del totale nazionale secondo i dati del registro delle imprese, mentre sono 34mila le imprese che operano nella trasformazione alimentare e nella produzione di bevande (escluso il tabacco). Anche in questo caso, quasi la metà delle imprese dell’industria alimentare italiana è localizzata al Sud che invece ospita solo un terzo del complesso delle imprese italiane».

L’export agroalimentare del Sud Italia è in costante crescita da un decennio, con aumenti in linea con quelli del Centro-Nord. Ma nelle ultime tre campagne ha pagato l’assenza di alcuni produzioni di punta del comparto come l’olio, funestato da pessime annate produttive, gli agrumi e l’uva da tavola caratterizzata dalla bassa qualità nel 2018. Elementi che hanno influenzato negativamente le esportazioni complessive a dimostrazione della rilevanza della componente agricola sull’export agroalimentare delle regioni del Sud. Il sistema agroalimentare meridionale resta poi, ricorda l’Ismea, «ancora fortemente orientato al mercato nazionale». Il Mezzogiorno, infatti, contribuisce all’export agroalimentare nazionali con un valore di 7,1 miliardi e una quota pari al 17,4%, una percentuale molto ridotta, rileva il rapporto, rispetto al potenziale derivante dalla sua base produttiva. Come conferma anche la bassa incidenza dell’export sul valore aggiunto, che per il settore agroalimentare del Mezzogiorno è nettamente inferiore alla media nazionale: 37% rispetto al 64 %.

Dagli ultimi dati emerge comunque come le imprese del Sud Italia siano state capaci di cogliere le opportunità derivanti delle nuove tendenze di una domanda mondiale favorevole al made in Italy realizzando un successo competitivo che si è tradotto in un aumento della quota di mercato dei prodotti agroalimentari esportati dalle regioni meridionali sulle esportazioni mondiali negli ultimi cinque anni, così come avvenuto a livello nazionale. In alcuni comparti, come la cerealicoltura, il rafforzamento dell’interprofessione con il sempre più frequente ricorso dei produttori ai contratti di coltivazione sta rilanciando la competitività di filiere, come quella del grano duro, alla base delle produzioni più note del made in Italy nel mondo come la pasta.

In sintesi, sottolinea l’analisi Ismea, «nel periodo successivo alla crisi, l’agroalimentare del Mezzogiorno (così come l’economia del Sud in generale) è andato peggio che nel resto d’Italia ma comunque meglio del resto dell'economia dell'area». Soprattutto, nel momento di maggior difficoltà, il settore si è dimostrato capace di avviare «un processo di riorganizzazione che ha coinvolto l’agroalimentare nazionale e che ha consentito di cogliere il trend positivo dei consumi nazionali e internazionali per il made in Italy agroalimentare».

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