Ai Girolamini, in nome del libro
di Stefano Salis
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Il manoscritto rilegato è posato all’estremità sinistra di un insieme di tavoli che formano un ferro di cavallo. Accanto al codice, illuminato da una lampada da scrivania, il laptop di una studentessa specializzata che lo sta esaminando, proprio mentre entriamo nella sala. Prende nota, osserva in controluce, descrive, mano rispettosa e sguardo partecipe. I suoi colleghi, a piccoli gruppetti, fanno altrettanto: sui tavoli, codici miniati, incunaboli, stampati. Libri rari, non di rado esemplari unici. Il manoscritto lo è, ovviamente, ed è un pezzo celebre. Noto come “Codice Filippino”, il solo nome ingolosisce gli specialisti. Si tratta del più importante testimone della tradizione manoscritta meridionale della Commedia. Nato come oggetto di lusso, è di bellezza commovente: la nitida scrittura del copista, toscano, prima metà del Trecento, è arricchita, e in che modo!, da uno straordinario ciclo di 146 miniature che riprendono quasi tutti gli episodi e la cosmologia dantesca. In più sfoggia, un ampio corredo di annotazioni, attribuibili a mani diverse, di grande interesse testuale, sottoposte qualche anno fa a un accurato studio da parte di Andrea Mazzucchi.
E proprio accompagnati da Mazzucchi, insieme ai colleghi docenti Marco Cursi e Giancarlo Petrella parliamo con gli studenti; è l’ultimo giorno di lezione prima delle feste di Natale. Sono i fortunati specializzandi della Scuola di Alta Formazione biennale post-laurea in “Storia e Filologia del manoscritto e del libro antico” istituita dalla Federico II in collaborazione con il Mibac e diretta, appunto, da Mazzucchi. Facce sorridenti, sveglie, voglia di fare, prospettive incerte eppure la forza di provarci, il confronto diretto con i libri come guida certa di un percorso che sa, per loro, di perfezionamento e possibilità, ma, per il posto in cui ci troviamo – e per tutti noi – di riscatto, di capitolo nuovo di una storia che ha appena vissuto la sua pagina più nera. Non sono casuali le metafore libresche: servono a ribadire quanto il libro sia dentro le nostre esistenze, tanto da permeare il linguaggio.
Fuori è Napoli, con il suo sole caldo anche a dicembre, che inonda la limonaia nel chiostro grande oltre la porta di ingresso; qui dentro è una sala della biblioteca del complesso dei Girolamini, storico cantiere di cultura di fronte al Duomo che tenta, faticosamente, di voltare pagina (rieccoci). Edificato tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, il complesso deve il suo nome ai religiosi seguaci di san Filippo Neri che, però, ebbero come loro primo luogo di riunione la chiesa di San Girolamo della Carità a Roma.
Lasciamo la sala dove gli studenti fanno lezione e saliamo le scale. Lungo gli ambulacri della biblioteca è stata appena risistemata la quadreria, altro elemento importante del patrimonio. Finalmente sarà riaperta al pubblico, in un percorso che sarà reso il più gradevole possibile, nonostante i lavori in corso, a febbraio: i quadri sono già sistemati, mancano le didascalie, in fase di rifinitura. Grande pittura napoletana, alcuni capolavori, opere di Zuccari, Ribera, Guido Reni. Ma ecco, alla fine di un corridoio, a destra, la porta che immetterà il pubblico a “sbirciare” nel cuore della struttra.
Quando la guardi, con un colpo d’occhio, sei travolto dalla bellezza della Sala Vico della celebre Biblioteca dei Girolamini, aperta e pubblica dal 1586. La luce piena, dalle finestre, entra gloriosa e si riflette sulle maioliche: dà vita a questo austero, elegante, doppio ordine di scaffali che conservano migliaia di libri. Il patrimonio è difficile da quantificare: anche prima dei furti – la più clamorosa spoliazione di beni culturali che l’Italia ricordi, almeno in epoca recente –, la mancanza di cataloghi aggiornati è stata la pietra angolare sulla quale basare la predazione. Parliamo di cifre come circa 150 mila unità, tra i quali 514 manoscritti, un imprecisato numero di pergamene e carte sciolte; 137 stampati musicali, oltre 120 incunaboli (ma è un dato da verificare), 5 mila edizioni del Cinquecento, 10 mila edizioni rare e di pregio, 485 periodici, una quantità non ancora determinata di microfilm e ritratti. Gli arredi, in parte, sono quelli originali del bibliofilo napoletano Giuseppe Valletta («helluo librorum», divoratore di libri), il cui fondo – 18 mila libri, pagati ben 14 mila scudi – fu comprato dai frati: la magnifica sala deve il nome, invece, al grande filosofo Giambattista Vico, che qui era di casa e che suggerì l’acquisto del fondo Valletta. Ti chiedi, sgomento, come sia stato possibile abbandonare e violentare in una maniera così barbara questo luogo, profanare un tal tempio: adesso, dopo il saccheggio del 2012, avvenuto ad opera del direttore della Biblioteca, Massimo Marino De Caro (e il fatto che fosse il direttore a perpetrare il delitto è il più sconcertante; e la dice lunga sulla catena di responsabilità), restano visibili i vuoti, soprattutto nelle sezioni più “facili” da smerciare nel mercato antiquario: carte geografiche, filosofia. I custodi, nominati sì Cavalieri del lavoro ma rimasti “precari” (di nuovo, un fatto che esemplifica la considerazione di cui godono i beni culturali nel nostro Paese) e la denuncia dello storico dell’arte Tomaso Montanari, allora docente a Napoli, hanno fatto scattare le indagini: ancora oggi parte della biblioteca è sotto sequestro giudiziario. Posizione giuridica che purtroppo non agevola la “risistemazione” che gli allievi (e i docenti) della Scuola stanno tentando: ma di sicuro, annuncia Petrella, un primo catalogo di 30 titoli certi sarà redatto e presentato in biblioteca in primavera. I cantieri di restauro delle strutture avviati e in avviamento, una cronica carenza di personale (manca, naturalmente, anche un solo bibliotecario), complessità burocratiche varie – di cui il direttore dell’intero complesso, l’architetto Vito De Nicola, è ben consapevole eppure fiducioso che si possano risolvere – non facilitano la situazione.
E anche per questo, appare ancora più “spericolata”, audace, e meritevole di attenzione, l’azione che l’Università Federico II, grazie al sostegno convinto del rettore Gaetano Manfredi, ha voluto intraprendere per restituire futuro a un luogo che sembrava, al contrario, avvitato nella sua storia e “ferito a morte” per mano di vertici malati. La Biblioteca dei Girolamini, biblioteca di conservazione, comunque di difficile consultazione per il grande pubblico, può sperare di rinascere solo se si pone come un rinnovato luogo del sapere e della diffusione della cultura del libro. La Scuola di specializzazione vuole essere un’eccellenza per la formazione di esperti nelle discipline filologiche, paleografiche e codicologiche (300 le domande arrivate per selezionare i 20 allievi, che godono anche, in gran parte, di borse di studio), proprio avvalendosi della straordinaria occasione dello studio diretto delle fonti . E le competenze tecniche e professionali via via maturate saranno prima di tutto utilizzate per il patrimonio che gli studenti si trovano sotto mano: i libri dei Girolamini. Il primo corso biennale finirà ad autunno 2019, anno che inizia, quindi, sotto il segno timido ma concreto della rinascita.
Se c’è una speranza che si può trarre dalla vicenda, è che, forse, è possibile trasformare, attraverso un esercizio di resilienza e “intelligenza civile”, un disastro culturale con risvolti criminosi in un’avventura della conoscenza e della formazione, che punta sui giovani e sul libro. Con l’obbligo che continui, negli anni a venire. I ragazzi che sfogliano questi libri non dimenticheranno mai l’emozione. Sono qui nel nome del libro e dell’amore, disinteressato, che gli si deve. E nel nome della nostra civiltà: che è passato, conservazione, trasmissione, futuro. Virtute e canoscenza, come scriveva qualcuno e riporta il manoscritto ora sotto i nostri occhi. Che la parola “fine” non sia ancora scritta, per questa storia. Che è la nostra storia, di tutti noi; e soprattutto di chi qui non ha mai messo piede, né lo farà mai. Ma deve sapere che questo posto c’è, esiste, resiste. Vive.
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