Alberto Arbasino, ultimo gran lombardo
Lo scrittore era nato a Voghera novant’anni fa
di Giuseppe Lupo
3' di lettura
Chissà cosa avrebbe pensato e scritto Alberto Arbasino, scomparso ieri, all'età di novant'anni, nella sua Voghera (dov'era nato nel 1930), dopo aver letto ciò che gli sta tributando in queste ore e nelle prossime un'Italia distratta dall'epidemia.
Da lui ci si poteva aspettare qualsiasi reazione, ma sarebbe stata sempre una risposta arguta, non banale perché la vera, grande risorsa a cui Arbasino attingeva da almeno sessant'anni, da quando cioè aveva debuttato con Le piccole vacanze per Einaudi, era lo sterminato patrimonio di letture e quei modi, tutti lombardi, di fare letteratura attraverso gli strumenti dell'intelligenza. Non ci si sbaglia definendo quest'uomo un “gran lombardo”, come lo era stato Carlo Emilio Gadda, a cui aveva dedicato alcuni suoi interventi saggistici - da I nipotini dell'ingegnere (1960) e L'ingegnere e i poeti (1963) fino a Genius loci (1977) e L'ingegnere in blu (2008) - e come, prima ancora, era stato il pantheon di intellettuali che si riconosceva dentro il cerchio di una cultura di stampo illuministico e morale, antica di due secoli eppure così vivacemente novecentesca.
Arbasino stava a proprio agio tra i fratelli Verri, Parini, Beccaria, Cattaneo. Direi che da sempre egli avesse guardato verso il loro magistero nel tentativo di trovare una scrittura che non fosse semplicemente - o semplicisticamente - il resoconto aneddotico delle storie, la cronaca sentimentale di un personaggio, ma il racconto di una nazione, la nostra, nella fase cruciale di un Novecento giunto allo spartiacque tra modernità e tradizione, tra società di massa e mondo agricolo. Su questo terreno Arbasino è stato imbattibile. La sua capacità di osservare l'antropologia del cambiamento, il suo estro nel disporre le scene di un'Italia dimessa ma ambiziosa, umile e sognatrice, proprio durante il passaggio tra la fine degli anni Cinquanta e il periodo del boom, sono tra i risultati più riusciti di un secolo che raramente ha mostrato attenzioni nei confronti del nuovo. Pensiamo a quanto i suoi libri, già solo a partire dal titolo, presentino questa attenzione costante al Paese. Fratelli d'Italia è l'esempio più calzante: un fluviale romanzo (ma davvero lo possiamo chiamare solo romanzo?), pubblicato una prima volta da Feltrinelli nel 1963, poi ripreso, riscritto, ampliato fino all'edizione definitiva, che Adelphi ha mandato in libreria trent'anni dopo. Un tarlo più che un libro, nella stessa parentela di quel maestro d'insoddisfazione che è stato Manzoni. Fratelli d'Italia rimane il capolavoro di uno scrittore anticonformista ed eclettico, inclusivo nella struttura, politecnico nei linguaggi a cui attinge. Forse l'opera più incisiva del boom e del dopo-boom, il cui impeto, mutando gesti e orizzonti, trova insospettabili legami con il migliore Ottocento vocato a far da colonna sonora alla nostra nazione. C'è una coerenza nel cammino di questi sessant'anni arbasiniani ed è la mai abdicata abitudine a credere in una letteratura nelle sue forme più eversive e ribelli, secondo il credo che era stato caro alla neoavanguardia ma che non si esaurisce solo a quella stagione, la cui distanza ormai obbliga perfino al sospetto. Difficile, quasi impossibile cercare un distacco tra Arbasino e il gruppo che aveva smosso riviste e accademie negli anni Sessanta. La sua vicenda di scrittore resta legata a filo doppio con quel segmento di epoca, ma è probabile che egli abbia attraversato a modo suo quell'epoca ormai lontana ai nostri occhi, vestendo i suoi panni e non quelli di altri, fino a dare una propria veste a quel che è la forma romanzo, dove - scrive Raffaele Manica nell'introduzione al primo volume dei Meridiani (2009) - «le citazioni sostituiscono l'intreccio o l'avventura del romanzo tradizionale: sono altre avventure verso altri mondi, noti o meno noti o ignoti».
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