Album di famiglia
Alle porte di un'estate in completo leggero, in cui sconfiggere il caldo con stile, la grande artista Camille Henrot ha sfogliato per “IL” le foto del ricevimento per il centesimo compleanno della sua bisnonna. E le ha rilavorate e combinate, in una reinterpretazione d'autore, con le immagini degli abiti per la stagione che viene. Prende così vita il primo episodio del progetto-serie#1
di Milovan Farronato
5' di lettura
Un'intima, meditativa ginnastica quotidiana: Camille Henrot (Leone d'argento alla Biennale d'Arte di Venezia, 2013) disperde immagini fugaci in transito tra una quasi astrazione e una figurazione tremula, oscillante. Volatili apparizioni sedimentate con equilibrati, parchi, essenziali movimenti del polso che rotea, ondeggia, flette pennelli di varia etimologia su una carta rigorosamente Somerset, di un radiante bianco velluto. Acquistata in fogli di grandi dimensioni, è l'artista a frantumarla nei formati più congrui all'esigenza del momento. Un antico tagliacarte in avorio – eredità familiare – e una più recente lama, montata su metallo tortile come una colonna barocca, sono gli arnesi prediletti a cui è affidato il ruolo, inaspettatamente catartico, della cesura.
La preparazione della carta necessita di un suo tempo e di un suo rituale – con o senza mitologia. I pennelli, a molti dei quali è attribuito un nome proprio, sono esclusivamente giapponesi. La maggior parte in manto di capra o realizzati con quest'ultimo miscelato a crine di cavallo. Immancabile quello in fibra vegetale e un altro in penne di gallo. Per tracciare le ricorrenti linee nere che bordano o tratteggiano i sinuosi profili delle figure sfuggenti mosse da impeti incostanti, o del loro contesto d'appartenenza senza evidenze di profondità, fa capolino un piccolo “Marte” modificato in vetta da forbici esperte guidate dalla mano dell'artista.
Sono oggetti d'affetto ed esercizio. Gli acquerelli, sempre provenienti dall'Estremo Oriente, contemplano un'ampia gamma di cromie per quanto alcune tonalità tornino frequenti e seducenti: turchese e acquamarina, tigrate di linfa verde e giallo cromo fino al grigio più plumbeo passando per un verde cobalto, ma anche ruggine roboante, ocra, robbia marrone, rosso Marte e accenni di rosso di Venezia. Veggente è la memoria inconscia dell'atto, o del gesto (difficile da definire) che precipita l'immagine in un climax istintivo, rapido, fulmineo, senza esitazione. Causale? Non direi.
L'allenamento è prassi, condizione, causa et effectus. Nati inizialmente come prove, bozzetti, scioglilingua per opere scultoree o per lavori in pellicola, i disegni – sempre concepiti in saghe per cui è difficile individuare ciascun finale – rappresentano una costante ricolma di variabili che solo a un certo punto ha inteso manifestarsi come opera a sé stante in esposizioni a lei dedicate. A partire dal ciclo Tropic of Love fino ad arrivare alla più recente mostra Born, Never Asked (Metro Pictures, New York, 2018) che ha scompaginato le serie e ha presentato un corpus in tumulto. Caratteristica peculiare di tutti i cicli è l'ambivalenza del soggetto, il suo non volersi definire, il suo essere armato di armi a noi non pervenute. La loro identità è ibrida, indecisa, polivalente. La loro natura eterea, scapigliata, anche indecente. Amano mostrarsi come preferiscono, senza pudore e senza pudicizia. La sessualità è un gioco, non un comandamento. Il camouflage un espediente irrinunciabile.
Per IL, Henrot ha sfogliato l'album di famiglia rapita soprattutto dalle immagini che immortalano i festeggiamenti per il centenario della bisnonna Marie Thérèse Engelhard, avvenuti nel 1988. Un costume drama party, durante il quale gli ospiti si sono immaginati provenire dalle varie epoche che la longeva signora ha attraversato. Dal langueur di fin de siècle di cui parla Paul Verlaine, al colpo di frusta della Belle Époque, passando per i look profumati di sigaretta e bourbon che solo Zelda e Francis S. Fitzgerald avrebbero indossato nella loro vacanza sulla French Riviera, fino ai ribelli anni Sessanta. Ogni invitato personificava un'epoca – ma sempre con quell'aplomb tutto francese che suggerisce una capacità innata di danzare sul e nel Tempo.
Un viaggio temporale e nello spazio siderale che sono sembrati il migliore contesto in cui far atterrare eleganti, impeccabili “astronauti” rigorosamente in completo, espressioni convincenti del nostro tempo nel suo maschile splendore. Questi rendez-vous romantici, arbitrari e anacronistici, sono ospitati sullo sfondo di una nuova serie di disegni dalle tonalità spesso incandescenti o altrimenti spiccatamente acquatiche. Un po' come gli incontri ne Il bar sotto il mare (1987) di Stefano Benni.
Collage frastagliati, figure algide in movimento poiché la memoria, si sa, «avvolge e riavvolge le pieghe, le spinge all'infinito», per dirla alla Gilles Deleuze. Il presente, d'altro canto, non è altro che un passato che si veste e si traveste, continuamente. Nuovi spasimanti e ammiratori che provengono forse da un universo parallelo a omaggiare la storia di cui Marie Thérèse è stata testimone. L'attualità vista come un presente già trascorso e il passato come rifrazione all'interno di una sfera di cristallo. Come un cannocchiale ribaltato che suggerisce di guardare oltre, un Oeil de Sorcière, lo Specchio della Strega. Un oggetto d'arredamento ricorrente a partire dal XV secolo nelle abitazioni del Nord Europa, un semplice specchio convesso in grado di riflettere costantemente immagini virtuali spesso rimpicciolite per estendere il campo visivo rivelando particolari altrimenti non percepibili — il ritratto dei coniugi Arnolfini in primis docet. E attraverso l'occhio della strega di Henrot darei ora la parola alla sua bisnonna per guardare dentro queste pagine.
«Nacqui sotto il segno del Capricorno un venerdì 13 del gennaio del 1888 a Le Vésinet e conclusi la mia parabola esistenziale senza la possibilità di spiare il nuovo secolo all'invidiabile età di centoquattro anni. Il mio cognome Engelhard, di origine tedesca, fu vocalizzato alla francese per apparire un angelo meno duro, meno risoluto. Attraversai indenne la Prima guerra mondiale durante la quale i miei otto fratelli perirono. Unica superstite di una famiglia borghese, interpretai fedelmente il ruolo di femme fatale, ma senza dramma, con leggerezza e umorismo. Doti che mi consentirono di poter contare sulla benevola presenza di molti ammiratori. Scelsi tuttavia il più giovane, di otto anni inferiore a me. Mi conquistarono i suoi disegni erotici che regolarmente mi spediva durante gli anni della sua prigionia in Germania e che trasmettevano, eloquenti, l'immagine di una femminilità piena e pienamente rispettata. Certo questo ha comportato un costante esercizio per mantenermi presente. Partite a tennis rigorosamente in pelliccia. Era un vezzo che affaticava i movimenti, ma agevolava la figura a preservarsi longilinea e allenata. Mi svegliavo presto, molto prima di lui, per un'accurata toilette alle prime luci dell'alba. Concedetemelo, voi che venite da un'altra epoca, sarà anche un atteggiamento datato, ma per me è stato espressione di emancipazione e conservazione.E mi veniva ricambiata la stessa cura da parte del mio giovane elegante consorte, André Mervoyer. In fondo era un artista. Una tradizione, quella del disegno acquerellato, iscritta nella linea di sangue della nostra famiglia. Vedete quell'uomo che mi porta un'aragosta al mio centesimo anniversario? È il figlio del mio più costante corteggiatore. Ho ricevuto in dono ogni domenica quel crostaceo per tutta la vita e, quando morì, il figlio continuò la tradizione. E voi, astronauti del tempo futuro e passato, cosa vi portate appresso da quell'incessante peregrinare del vostro tempo contemporaneo? Alla mutevole carne preferite un ricordo, un mannequin dell'anima e del Tempo che fu e che ancora è, da vestire e travestire a seconda del viaggio del momento».
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