Alla ricerca di un metodo pragmatico per la svolta climatica
Finora montagne di parole hanno prodotto impegni insufficienti. Serve molto più pragmatismo e la visione sufficiente per non continuare a lasciare il cerino della crisi in mano a chi dovrà affrontarne le conseguenze
di Francesco Grillo
2' di lettura
Il numero più preoccupante e oggettivo sul cambiamento climatico viene dalla superfice dell’Antartide che a luglio si è rimpicciolita del 15% rispetto all’estate precedente. L’umanità procede veloce verso il proprio iceberg. E, paradossalmente, a tentare di invertire la rotta sarà - al vertice dell’Onu sul clima (Cop 28) a Dubai - l’ad della compagnia petrolifera che gestisce i giacimenti di Abu Dhabi (l’Adnoc). Eppure, Sultan Al Jaber sembra proporre un approccio che può essere più efficace di quello che ha finora prodotto tante parole e pochi risultati. Un conto sulle effettive realizzazioni è stato presentato alla Conferenza globale delle Dolomiti sul cambiamento climatico all’inizio di ottobre a Trento che ha anticipato i contenuti di Cop. Sette anni fa ci si impegnò a ridurre le emissioni del 43% entro il 2030: da allora le emissioni sono cresciute di un ulteriore 10 per cento. Per recuperare lo svantaggio, Dubai propone ulteriori tre traguardi da centrare nei sette anni che restano: triplicare la produzione di energie rinnovabili (inclusa l’energia nucleare); dimezzare l’energia consumata a parità di produzione; raddoppiare l’idrogeno (che può essere vettore di fonti pulite). Molto si parlerà di compensazioni (il fondo “Loss and damage” e quello per l’adattamento a eventi estremi) che i Paesi ricchi dovrebbero pagare a quelli che sono più vulnerabili. E di come distribuire lo sforzo tra Occidente e Paesi di più recente industrializzazione (Cina, India). E però le stesse cifre in gioco – 200 miliardi di dollari, laddove la transizione energetica ne richiede 3.500 all’anno – conferma che continuiamo a litigare, mentre affondiamo insieme. Sotto la lente è finita la dichiarazione di Sultan Al Jaber: da protagonista dell’economia fossile ha riconosciuto che è dalla stessa estrazione di petrolio, gas e carbone che bisogna progressivamente uscire. Tuttavia, piuttosto che dai compromessi lessicali, bisogna partire dalla constatazione dell’assoluta necessità di trovare un metodo nuovo. L’idea degli emiri è di rendere trasparente il coinvolgimento dei colossi dell’industria dell’oro nero in negoziazioni che hanno, sempre, condizionato. Esse hanno le risorse, le tecnologie e la necessità di adattarsi ad un cambiamento che rischia di travolgerle. Non è detto che a Dubai si riescano a ottenere risultati concreti. Ma finora, montagne di parole hanno prodotto impegni insufficienti. Serve molto più pragmatismo. E la visione sufficiente per non continuare a lasciare il cerino della crisi in mano a chi dovrà affrontarne le conseguenze
Director di Vision e fellow di European University Institute
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