Andrea Bonomi: «Analisi dei dati e intelligenza artificiale le frontiere più affascinanti per le imprese»
Il fondatore di Investindustrial vive tra New York, Londra e Lugano gestendo 11 miliardi di euro, con una preferenza per industria, Europa e Italia in particolare
di Paolo Bricco
I punti chiave
6' di lettura
«Mia nonna Anna era divertente ed esplosiva. Ha vissuto una vita avventurosa. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state segnate da lei. Dai suoi racconti, quando ero bambino e ragazzo, e dai racconti che ho ascoltato da adulto da chi l’ha incontrata e conosciuta. Mentre scalava la Saffa, una società che produceva fiammiferi, era in barca in Turchia e si faceva lanciare da un aereo i biglietti con le informazioni sugli acquisti delle azioni. All’architetto e designer Luigi Caccia Dominioni, che era interessato a progettare il quartiere di Milano San Felice, disse che sì, poteva essere fatto, ma che prima, per capire come lavorava, era meglio che le facesse la cucina nella sua casa di via Bigli. Mia nonna incarnava una Milano e una Italia uscite dalla Seconda guerra mondiale piene di vita e di energia, di voglia di fare e anche di possibilità di riscattare gli errori. Perché c’era sempre il senso del domani».
L’acquisizione di Eataly
Andrea Bonomi – con il suo lessico famigliare e con il suo alfabeto professionale – è un concentrato di passato, presente e futuro. La nonna Anna era Anna Bonomi Bolchini. Anna Bonomi Bolchini è morta nel 2003 all’età di 92 anni. Andrea, che di anni ne ha 57, è il fondatore di Investindustrial. Ha da poco concluso l’acquisizione di Eataly dalla famiglia Farinetti: «La società va riorganizzata, ma ha un buon potenziale sui mercati stranieri. Già l’America va molto bene», spiega Bonomi. Che, da questa operazione in cui Investindustrial ha investito 200 milioni in aumento di capitale e avrebbe impiegato una cifra analoga per arrivare al controllo, ha tenuto fuori il parco tematico di Bologna Fico, che non ha mai trovato una sua fisionomia e che ha sempre prodotto significative perdite.
Siamo da Bice in via Borgospesso, dove Anna veniva spesso a mangiare: «Un giorno mia nonna va dal Salumaio, appena qui dietro, e trova il titolare scuro in volto. Gli chiede che cosa succede. E l’altro le spiega che hanno messo in vendita la pasticceria Cova. Lui la vorrebbe comprare, ma non ha i soldi. Mia nonna il giorno dopo torna con un assegno circolare da tre miliardi di lire e gli presta quei soldi con una stretta di mano. La somma fu ripagata in anticipo. Erano altri tempi!».
La storia di Anna Bonomi
Sua nonna è stata una delle personalità più influenti, vitali e irriverenti dell’Italia del Boom economico. Una vita romanzesca: figlia di Carlo Bonomi, costruttore edile, e di Maria, che faceva la portinaia in uno stabile di proprietà del primo, studia dalle Marcelline grazie al padre naturale, che prima la ama a distanza e che poi le si avvicina, fino a riconoscerla e a farne l’erede universale della sua fortuna. Con un’ascesa degna della Commedia Umana di Balzac, Anna si prende Milano, costruisce il Pirellone e diventa una protagonista della vita pubblica italiana, piena di irruenza e di affari conclusi alternando l’italiano al dialetto. Anna fonda la società di vendite per corrispondenza Postalmarket e compra la Mira Lanza (saponi e detersivi), la Rimmel (cosmetica, di origine inglese) e la Durban’s (cura dei denti). Accumula partecipazioni azionarie nel Credito Varesino, nella Fondiaria e nella Milano Assicurazioni. È aggressiva, rapida e generosa: «Aveva una rete di relazioni internazionali di livello, anche grazie alle operazioni immobiliari compiute a Parigi, a Montecarlo e a Città del Messico e alle società attive in Europa e in America».
Il cameriere porta come antipasto per lui una insalata di avocado, palmito e scaglie di grana e, per me, una pizzaccia calda della Bice, che è una pizza di sfoglia con pomodori, mozzarella e cipolle. «La mia vita e la mia storia professionale – dice – sono state condizionate da due eventi: il trasferimento all’estero da ragazzo quando in Italia c’era il terrorismo e, poi, la scalata della Montedison di Mario Schimberni alla nostra società di famiglia, la Bi-Invest. Mia nonna era una imprenditrice vulcanica. Ma mio padre Carlo era stato bravissimo a riordinare una realtà caotica, piena di doppioni, spesso inefficiente, costruita con la proliferazione delle società e il loro controllo con maggioranze assolute. La precedente composizione, così frastagliata, non aveva senso. Poi ci fu, nell’estate del 1985, il takeover ostile. Prevalsero la volontà di potenza e il disegno strategico di Schimberni rispetto alla struttura proprietaria. Quella operazione mi orientò in maniera definitiva verso una carriera internazionale, con l’appoggio dei miei fratelli Carlo e Emanuele».
I camerieri gli servono una tagliata di manzo al rosmarino e pepe in grani con patate arrosto. A me, invece, portano una cotoletta di vitello alla milanese con basilico e pomodorini. «Troppo spesso viene sottovalutata la competenza professionale, il riserbo e la compostezza di mio padre. È stato bravo a non farsi travolgere dall’energia spaventosa di mia nonna. La cosa che mi colpiva di più di lei era il suo parlare dritto e acuminato. O taceva o diceva quello che pensava. Ogni progetto, per lei, si poteva realizzare. La sua lingua era completamente diversa dalla diplomazia e dalla rotondità della finanza e dell’economia italiana di oggi. A partire dalla mia trisnonna Carla, fino ad arrivare a mia madre Emanuela e a mia moglie Gioia, le donne hanno sempre ricoperto un ruolo fondamentale di collante per l’intera famiglia», aggiunge orgoglioso Bonomi.
Usare le parole giuste
Il problema del linguaggio è fondamentale. Lo è nel confronto umano fra le persone, nei meccanismi sociali che presiedono al funzionamento delle istituzioni e delle aziende, nella misurazione e nella comprensione dell’altro da sé, anche quando l’altro da sé è una controparte nel business. Oggi Investindustrial, con 11 partner e 165 collaboratori in tutto il mondo, gestisce 11 miliardi di euro e impiega 46mila persone. I suoi investitori sono per la metà europei, il 10% è asiatico o mediorientale, il 40% è americano. Di questi 11 miliardi, 6,9 sono stati già investiti: il 46% in Italia, il 42% nel resto d’Europa e il 12% nel resto del mondo. Il 45% degli investimenti è nel settore industriale, il 35% nei consumi, il 15% nel medicale e il 5% nella tecnologia. «Il mio primo problema è di linguaggio – spiega Andrea – perché esiste un pregiudizio verso l’Europa del Mediterraneo in generale e verso l’Italia in particolare. Gli investitori stranieri sono spesso condizionati da esperienze personali minime negative. Anche se, in realtà, ormai è diventata patrimonio di tutti, nel business internazionale, la buona cultura industriale italiana. Noi investiamo sulle fabbriche. E chiunque sa che le fabbriche italiane sono migliori delle fabbriche americane o inglesi. Per tecnologia, organizzazione, pulizia, innovazione, saper fare dei tecnici e degli operai. Se penso a quello che abbiamo fatto in Ducati, ancora mi emoziono. Allora qualche mio investitore pensò che Ducati fosse una mia personale vanità sui motori: io ho corso in moto facendo lunghe distanze e mio padre è stato campione mondiale di nautica offshore. In realtà, è stata una operazione industriale bellissima. Se oggi ricomprerei Ducati? Sì, anche se dovremmo valutare bene il problema della transizione verso l’elettrico».
In questo strano giorno milanese di fine estate e di inizio d’autunno, beviamo tutti e due acqua minerale e lasciamo stare il vino rosso. Il problema del linguaggio vale anche al contrario: «Molte medie imprese internazionalizzate italiane hanno storie simili. Sono un bravo imprenditore. Cresco, cresco, cresco. Mi aggancio bene alle catene globali del valore. Compro uno o due concorrenti all’estero. Vivo in una dimensione internazionale, perché per me è fondamentale se aumenta la domanda in Cina o se ha successo il prodotto della multinazionale americana a cui io fornisco un componente essenziale. A quel punto arriviamo noi di Investindustrial. Con la finanza, la tecnologia e la focalizzazione su mercati dove l’imprenditore da solo non riuscirebbe ad andare, possiamo fare compiere un salto evolutivo e dimensionale alla sua azienda. Da imprenditore o imprenditrice soddisfatta, ci fa entrare nel capitale solo se accetta il nostro linguaggio per una sfida ulteriore per crescere».
Pluralità di linguaggi
La particolarità di Andrea Bonomi è la pluralità dei suoi alfabeti e dei suoi linguaggi. Vive fra New York, Londra e Lugano. Opera fra la finanza e l’industria. Frequenta i mercati finanziari dove le parole prevalenti sono standard, benchmark, compliance, track-record. Dove la neutralità sembra quasi senz’anima. E ha conosciuto – richiamando il dottor Ingravallo del Carlo Emilio Gadda di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana – «una certa praticaccia del mondo detto “latino”».
«A distanza di anni, posso dire che è stato interessante fare il presidente della Banca Popolare di Milano? Un mondo che altrove non esiste. Incomprensibile fuori dall’Italia. Ma, proprio per questo, perfino divertente», dice ridendo.
Arrivano i caffè. Doppio per tutti e due. «Una sfida veramente affascinante? La frontiera tecnologica del data mining e dell’intelligenza artificiale applicata alle imprese. Una volta con il just in time il tempo della fabbrica era lineare. Adesso con la deglobalizzazione in corso l’accesso ai dati nelle singole imprese è estremante complicato. È saltata la categoria del tempo classico dell’industria. Chi svilupperà un modello di rilevazione effettiva e di stima probabilistica efficace di tutti i numeri e di tutti i processi delle aziende cambierà la pratica e la concezione della manifattura internazionale», dice Andrea Bonomi, figlio di Milano e cittadino del mondo che non ha soltanto una storia, ma che possiede anche i linguaggi e gli alfabeti della nuova modernità.
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