Andrea Carandini: il borghese critico, il vento del Novecento e la fatidica dissoluzione degli imperi
Nella sua casa di Roma, il conte archeologo, nipote dell’ex direttore del Corriere ripercorre la sua vita, tra passioni e dolori, ricordi di Torre in Pietra e amori delusi
di Paolo Bricco
7' di lettura
«Ogni tanto penso a me come a Hanno, l’ultimo discendente dei Buddenbrook, la famiglia raccontata da Thomas Mann. Il destino della borghesia è di consumarsi. Non è mai esistito un ceto sociale nella storia che, a fronte di una vitalità tanto grande, abbia concepito il gene di una critica così distruttiva e abbia coltivato un odio così feroce, intimo e autoriflesso. La mia vita è però particolare. In me coesistono la borghesia e l’aristocrazia. Mi sento un Albertini. Mi chiamo Carandini. La nobiltà, a differenza della borghesia, ha avuto una propensione ad autoperpetuarsi. I suoi ritmi sono più lenti. La sua attitudine verso sé medesima è più accogliente. Un punto di incontro fra questi due mondi, nella mia vita, è stata la tenuta di Torre in Pietra, nella campagna romana, con la sua dimensione fuori dal tempo e con la simultanea rivoluzione agricola modernizzatrice imposta dalla mia famiglia negli anni Venti».
Andrea Carandini - classe 1937 - è un uomo che custodisce i fili spessi e aggrovigliati del Novecento. In lui questi fili – la sorte individuale e la traiettoria delle classi sociali, la ricerca intellettuale e la vita professionale, l’archeologia e la psicanalisi – si intrecciano componendo nodi strettissimi. E lo fanno in una maniera affascinante, al limite del doloroso, anche se alla fine – come capita nelle vite degli uomini che si sono misurati con il paradosso della vita senza esserne travolti – ogni cosa trova un senso e i grumi sembrano emulsionarsi e sciogliersi.
I ricordi dell’infanzia
Prima di sederci per pranzare, Carandini mi mostra un oggetto: «Quando io ero piccolo, trascorrevo molto tempo a Torre in Pietra. Mio nonno Luigi la comprò nel 1926. Lui, mio zio Leonardo e mio padre Nicolò, dopo la bonifica di queste terre malariche, ne fecero un’azienda agricola modello. Amavo il lavoro degli artigiani del borgo. L’unica cosa che non potevo toccare, nella bottega del sellaio, era la mezzaluna con cui si tagliava il cuoio, perché rischiavo di procurarmi una ferita. Ora ho trovato, in una delle ultime botteghe artigiane di Roma, questa mezzaluna da sellaio che ha una custodia molto elegante e sicura. Vede come si estrae senza che il filo tocchi e tagli la pelle del palmo della mano? Adesso, nessuno si fa male».
Il nostro incontro è segnato da alcuni fuochi che sembrano racchiusi in questo oggetto, che è minuto, elegante e a suo modo pericoloso: il passato e il presente, la memoria e il pericolo, l’amore e il dolore. Andrea Carandini è nipote di Luigi Albertini, una delle grandi anime della fragile Italia liberale distrutta dal biennio rosso e macerata dal fascismo: «Mio nonno morì quando io avevo quattro anni. Per tutta la vita mi sono misurato con la sua ombra. Ho alcuni ricordi nitidi di lui che mi portava sulle spalle e ho una elaborazione densissima di racconti famigliari ascoltati. Non lasciò mia madre iscriversi al ginnasio. Allora le ragazze andavano educate solo in casa. Lei non sopportò quella proibizione, rifiutò le istitutrici e si costruì una cultura da autodidatta leggendo moltissimo e imparando a suonare il pianoforte. Io suono il pianoforte e l’organo. Ero legatissimo a lei. Più che a mio padre, un uomo del 1895 per il quale la vicinanza emotiva e l’assiduità quotidiana con i figli non erano essenziali. Il mio, con loro, è stato un classico triangolo edipico».
Nel 1925 Albertini era stato costretto a lasciare la direzione del «Corriere della Sera» e a cedere alla famiglia Crespi le quote del giornale che aveva sviluppato nel solco del liberalismo di matrice britannica, quanto di più lontano dal pensiero socialista mussoliniano trasmutato attraverso il nazionalismo, il reducismo della Prima guerra mondiale e l’alleanza – in senso gramsciano - con gli agrari e i borghesi: «In fondo, nella borghesia del Nord solo gli Albertini e i Pirelli non si assimilarono pienamente al fascismo». Andrea è figlio di Elena Albertini e del conte Nicolò Carandini. Un suo antenato – il cardinale Ercole Consalvi, segretario di stato di papa Pio VII dal 1800 al 1806 e dal 1814 al 1823 – aveva per madre una Carandini, di nome Claudia.
Una casa che parla
Nella sua casa di Roma, ogni cosa parla. La luce che entra dalle finestre con la forza senza tempo dei quadri di Renato Guttuso, il divano in mezzo al salone a cui è attaccata ancora oggi una corda con cui suo padre negli anni Trenta si gettava nel giardino sottostante quando gli agenti dell’Ovra irrompevano a fare una perquisizione, gli angoli in cui negli anni Cinquanta bevevano il caffè gli intellettuali del «Mondo» di Mario Pannunzio e, anche, le storie minime che rimangono come per incanto a volteggiare nell’aria: «Al sesto piano abitava Susanna Agnelli, al quinto piano c’era Gianni. Qualche volta sull’ascensore ti capitava di incontrare un signore con la barba nera. E di pensare: guarda quanto assomiglia a Fidel Castro. Era Fidel Castro».
Ci sediamo a tavola in un angolo della casa tappezzato di libri di letteratura tedesca. Una grande finestra dà su un salice piangente. Viene servito un risotto al radicchio molto buono. Con una voracità che ricorda la voracità per la vita, Andrea ne prende un secondo piatto. Io faccio lo stesso. Carandini non è stato schiacciato dal peso della storia. Sua e degli altri. Anche se il racconto che lui fa di sé, ascoltato dalla sua voce e letto nella biografia L’ultimo della classe. Archeologia di un borghese critico (Rizzoli), è spesso segnato da dicotomie se non irrisolte, almeno crudelmente dolorose. Come il binomio fra la cultura e la politica: «L’errore più grande della mia vita? Iscrivermi al Partito Comunista. Mi convinse Giorgio Napolitano, responsabile della cultura del Pci. Rimasi due anni. Poi me ne andai. Poco prima di morire, nel 1957, il grande latinista Concetto Marchesi, da comunista, conduceva una battaglia culturale per la diffusione del latino fra gli operai. Non ho mai apprezzato don Lorenzo Milani e il falso democraticismo della scuola di Barbiana. L’unica vera possibilità sociale per i poveri è la cultura ai massimi livelli, con una selezione dura e intensa. Mi sono sempre piaciuti i “Grundrisse” di Karl Marx, nelle loro ipotesi descrittive delle società precapitalistiche, schiavistiche e feudali».
In tavola viene servita una insalata di pomodori e pinoli, scaglie di parmigiano e noci. Più otto diversi tipi di formaggi. Racconta Carandini: «Il mio primo maestro? Il cuoco della mia famiglia, Giovanni Pellegrini. Mi faceva da vicepadre spiegandomi le cose della vita. Mio padre era molto assente, impegnatissimo nel Partito Liberale e nell’attività editoriale del “Mondo” di Pannunzio, di cui era proprietario. Quando sono cresciuto, il mio grande maestro è stato Ranuccio Bianchi Bandinelli, un grande intellettuale che divenne comunista per espiare la colpa di essere un borghese o meglio, nel suo caso, un aristocratico di antica famiglia senese che aveva avuto perfino fra i suoi antenati un papa, Alessandro III. Era allo stesso tempo un archeologo e uno storico dell’arte, un critico letterario e uno scrittore, un cultore di storia materiale e un conoscitore dell’artigianato. Poi ho appreso tantissimo dagli archeologi inglesi. In Italia, nel Secondo dopoguerra, si scavava ancora come negli anni Trenta. Da loro imparai il metodo della stratigrafia: lo applicai a Ostia, nel mio primo scavo».
Dolore e psicanalisi
Carandini, che mangia di buona lena insalata e formaggi, ha molto vissuto: «Il dolore più grande? L’amore per una mia allieva. Per affrontare quel dolore, andai in analisi con Ignacio Matte Blanco, lo psicanalista cileno. Blanco è partito da Sigmund Freud e lo ha in qualche maniera completato. La sua capacità di analizzare il dualismo fra conscio e inconscio e l’interazione fra il pensiero logico aristotelico, proprio della dimensione conscia, e il pensiero che lui chiama simmetrico e in cui la logica tradizionale si scioglie superando le categorie classiche dello spazio e del tempo è stata fondamentale per strutturare la mia identità, per darmi comprensione e per aiutarmi nell’accettazione della vita, con i suoi dolori e le sue felicità».
La psicanalisi è Novecento in purezza. Beviamo entrambi acqua minerale alternandola a un vino rosso siciliano. In Carandini tutto è Novecento. La sua biografia. Il suo metodo. Il suo sguardo: «Il Novecento per l’Europa è stata tragedia e vita, distruzione e ricostruzione. La civiltà occidentale ha espresso ed è stata espressa dal Novecento. E ha conosciuto il crollo dell’impero romano, il crollo del sacro romano impero, il crollo dell’impero inglese, il crollo dell’impero austro-ungarico. Per fortuna gli imperi sono esistiti e per fortuna gli imperi sono caduti, perché gli imperi si possono conservare soltanto dominando le culture particolari omologandole e uniformandole. La modernità li ha dissolti. La nostra libertà nasce dalla loro dissoluzione. Oggi la geopolitica è determinata da tre nuovi fuochi, che non hanno conosciuto il nostro Novecento: la Cina, la Russia e la Turchia. Nell’altrove rispetto all’occidente, gli imperi rimangono. La Cina è un impero: il comunismo di Xi Jinping è in continuità storica con la Cina degli imperatori. Vladimir Putin è uno Zar. I richiami di Erdogan al sultanato sono significativi».
In tavolo arrivano le macedonie di frutta e i caffè. E, guardando il volto da maschera romana priva di malinconia di Andrea Carandini – archeologo, uomo del Novecento e molto altro - mi vengono in mente le parole con cui Thomas Mann inizia la quadrilogia di Giuseppe e i suoi fratelli: «Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile? Insondabile anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma anche per natura misera e dolorosa. È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema».
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