Emergenza profughi

Angelina Jolie:aiutare i rifugiati è un dovere ma bisogna farlo nel modo giusto

Una grande attrice parla della sua esperienza sul campo di UNHCR e in altri programmi delle Nazioni Unite. Per intervenire nell'emergenza profughi non basta la buona volontà.

di Angelina Jolie

Angelina Jolie (ph. NATO)

5' di lettura

Durante la mia prima visita in un campo per rifugiati, quando avevo poco più di vent'anni, ho incontrato un padre sconvolto perché il figlio era gravemente malato. A 12 anni soffriva di malnutrizione acuta e di una malattia causata da una ferita d'arma da fuoco, trascurata troppo a lungo. Il personale dell'ospedale aveva fatto tutto il possibile per lui ed era arrivato il momento di dimetterlo. Presa dall'angoscia, chiesi se potevo pagare io per lui, per farlo uscire dal campo e mandarlo da qualche altra parte – da qualsiasi parte – per farlo curare. I membri del gruppo con cui mi trovavo lì mi spiegarono gentilmente che non solo il ragazzo non aveva alcuna possibilità di sopravvivenza, ma che ogni singolo giorno, nel campo per rifugiati, era dedicato alle azioni di pronto soccorso medico per cercare di salvare il maggior numero di vite possibile, e con risorse estremamente limitate.

Racconto questa storia perché penso che l'istinto di chiunque si trovi di fronte alla sofferenza sia quello di voler dare una mano. A volte, però, capire qual è il modo giusto di aiutare è più complicato di quanto sembri. Nei vent'anni che sono trascorsi da quando sono entrata a far parte di UNHCR, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono stata coinvolta in molti tipi di donazione. Ho donato in favore di UNHCR e di altri programmi delle Nazioni Unite per far fronte alle emergenze, costruito scuole per ragazze rifugiate e finanziato progetti di conservazione e di sanità a lungo termine. Lo dico non per sottolineare di aver fatto qualcosa di speciale. Ho commesso errori e sto ancora imparando, ma certi principi restano validi.

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Primo, la gente del posto sa meglio di chiunque altro come aiutare uomini e donne del proprio Paese. Li conosce e capisce loro e il contesto in cui vivono. Grazie a UNHCR ho imparato che le organizzazioni locali sono le più veloci ed efficaci quando si tratta di affrontare un'emergenza e, com'è prevedibile, anche nello sviluppo a lungo termine delle loro società. Una conseguenza positiva della pandemia è che, con il mondo in pausa e l'interruzione dei viaggi, ascoltiamo molto di più chi vive sul posto e abbiamo assistito a una serie di iniziative locali innovative. Dovremmo esserne grati e cogliere l'opportunità di ripensare il nostro approccio agli aiuti umanitari e allo sviluppo, dal basso verso l'alto: porre le persone emarginate al centro delle nostre risposte e conferire più potere a quanti sono rimasti maggiormente colpiti.

Secondo, non vi è investimento migliore del sostegno all'istruzione. Le donazioni devono avere l'obiettivo di aiutare le popolazioni a raggiungere l'autosufficienza. Nessuna persona – e nessun Paese – vuole vivere dipendendo da altri. Le ragazze di una scuola che ho finanziato nel campo di Kakuma, in Kenya, grazie al loro impegno e alle loro capacità, sono riuscite a superare gli esami con i voti migliori a livello nazionale. Eppure, ancora prima della pandemia, metà dei bambini rifugiati non andava a scuola e solo il tre per cento dei giovani rifugiati aveva accesso a un'istruzione di livello superiore. È un terribile spreco di potenziale. Inoltre, è molto più probabile che siano le donne ad abbandonare la scuola, perché costrette a lavorare o a sposarsi giovani. Non sempre dare un'alternativa e trovare una soluzione è complicato. Per esempio, nel campo di Kakuma è bastato fornire, durante il lockdown, delle lanterne per consentire alle ragazze di studiare fuori dalla scuola.

L'ex Ministro degli Esteri William Hague e l'inviata speciale dell'UNHCR Angelina Jolie, visitano il campo profughi Lac Vert nel Congo Orientale. Marzo 2013. Picture Crown Copyright/MOD/LA(Phot) Iggy Roberts.

Terzo, è fondamentale sovvenzionare centri di accoglienza per aiutare le donne a sottrarsi alla violenza, ricevere sostegno psicologico e sviluppare nuove capacità. Servono molti più fondi, soprattutto per offrire rifugio e servizi accessibili destinati alle vittime di stupro o di violenza domestica. Lo stesso vale ovunque, anche negli Stati sviluppati e pacifici come il mio. Ed è impossibile giustificare che, a oggi, meno dell'uno per cento di tutti i fondi umanitari internazionali sostenga iniziative contro la violenza sessuale e di genere. I governi dovrebbero essere spinti a cambiare la situazione, ma anche i singoli individui possono fare molto, scegliendo di donare a organizzazioni che si occupano di questi temi.

Infine, la cosa più importante di tutte: se pensiamo solo in termini di aiuti, agiremo sempre dopo che un evento nefasto si è verificato. Non è giusto offrire sostegno umanitario senza opporci contemporaneamente agli aggressori che sono la causa principale del problema. I Rohingya rifugiati in Bangladesh non hanno solo bisogno di cibo, di un posto in cui vivere, di istruzione. Devono poter tornare in Myanmar in sicurezza, vedendo riconosciuti i loro diritti di cittadini. Gli aiuti non possono sostituire gli accordi di pace né assumersi le responsabilità di chi ha commesso crimini contro innocenti e di chi dovrebbe condurre le nazioni a raggiungere prosperità e indipendenza.

Eppure oggi, invece di concentrarsi a trovare soluzioni ai conflitti, ci si aspetta che i rifugiati si accontentino della sopravvivenza, con razioni sempre più esigue e sempre meno speranze di tornare a casa. Il World Food Programme ha dichiarato di recente che, a causa dei tagli, sarebbe stato in grado di fornire cibo solo ogni due mesi in Yemen, dove i bambini stanno morendo di fame. Basta consultare il sistema di tracciamento dei finanziamenti delle Nazioni Unite ( fts.unocha.org ) per vedere, proprio nel momento in cui scrivo, che quest'anno è stato devoluto meno del sei per cento dei fondi necessari per fornire il sostegno minimo ai rifugiati in Sud Sudan. Non importa quanto sia difficile la situazione, lo staff di UNHCR dice e fa tutto ciò che è in suo potere per aiutare i rifugiati, ha continuato a farlo anche durante la pandemia, nei luoghi più difficili della Terra. Troppo spesso, però, i nostri leader stanno in silenzio o, peggio, sono parte del problema. Sono sempre più a disagio quando penso all'incapacità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di affrontare tutto questo. La pandemia ci offre l'opportunità di ripensare completamente il nostro approccio alla politica estera e all'assistenza umanitaria e di creare un mondo più stabile ed equo. Se avete la possibilità di donare, fatelo direttamente a organizzazioni locali e chiedete a loro qual è l'aiuto di cui hanno più bisogno, date priorità a istruzione, tutela di donne e bambini. Consultate i modi in cui è possibile sostenere UNHCR . Date rispetto e comprensione ai rifugiati, che lottano in prima linea per la libertà dalla persecuzione.

Su Instagram, dove è approdata di recente per dar voce alle donne afghane e ai rifugiati, Angelina Jolie si presenta come mamma, filmmaker, inviata speciale dell'UNHCR. Dal 2001, ha partecipato a oltre 60 missioni sul campo. L'attrice ha vinto tre Golden Globe e due premi Oscar, nel 2000 per Ragazze Interrotte, e nel 2014, quando le viene assegnato il Jean Hersholt Humanitarian Award, una categoria degli Oscar attribuita per contributi eccezionali a cause umanitarie. Ha collaborato con Amnesty International e la professoressa Geraldine Van Bueren al libro Know Your Rights and Claim Them. A Guide for Youth, pubblicato a settembre 2021.

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