Anish Kapoor, novello alchimista in mostra a Palazzo Strozzi
Fino al 4 febbraio Firenze ospita l’esposizione “Untrue Unreal”
di Francesca Vertucci
4' di lettura
Varcando in questi giorni le porte di Palazzo Strozzi si ha a che fare non con una semplice mostra, ma con un processo trasformativo che porta in sé barlumi di magia, dove le opere concettuali dell’artista indiano Anish Kapoor trasmutano e dialogano con la razionale simmetria di spazi del palazzo rinascimentale. “Anish Kapoor. Untrue Unreal”, mai titolo potrebbe essere più calzante per l’esposizione che incanterà Firenze fino al 4 febbraio del prossimo anno: un viaggio in tutto ciò che è imperscrutabile e illusorio, antico fardello della condizione umana.
Sfruttando la dicotomia vita/morte, razionale/irrazionale, l’artista esalta la poetica degli oggetti, per non concentrarsi sul mero significato: “Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione. Si tratta di cambiare stato alla materia […] attraverso uno strano processo di manipolazione di cui non saprei come parlare”.
Osare
La parola chiave di Kapoor è infatti osare, sperimentando nuovi modi di vedere e concepire la realtà al pari di un novello alchimista. Le sue opere trascendono la materialità, rendendo cera, siliconi, acciaio riflettente e pigmenti dei simboli che permettono di guardare oltre la sterile realtà delle cose. E, se nell’arte tutto è finzione illusoria, portare un oggetto al di là dell’essere è un progetto ambizioso: un mondo dove vero e falso si dissolvono, aprendo le porte all’eventualità dell’impossibile. Già dalla prima sala con “Svayambhu” - in sanscrito “sorto da sé” – si viene catapultati in una riflessione tra vuoto e materia con un enorme blocco di cera, che riproduce un vagone ferroviario stilizzato, di un truculento rosso vivo - a richiamare sia metafore di nascita che i massacri più sanguinari di guerra, in un’eterna lotta tra Eros e Thanatos.
Il colore rosso
L’uso del rosso in tutte le sue sfumature è un tratto distintivo dello scultore, perché simboleggia in India sia il colore matriarcale della sposa sia un torbido, passionale e violento mondo interiore. Come un moderno Pigmalione, Kapoor dà poi vita a una colonna dagli infiniti tratti metafisici, “Endless Column”, esplicito riferimento alla famosa scultura “La colonne sans fin” di Constantin Brâncuși. Metafora del legame tra terra e cosmo, Kapoor utilizza il pigmento rosso ai bordi per nascondere la colonna e renderla altro da sé, arrivando al cielo e trascendendo ogni fisicità: “Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta, invisibile. E così mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile. Una parte sporgeva nel mondo, ma era il resto a essere veramente interessante”.
Il vuoto
Tuttavia, il fulcro nevralgico della mostra è il “Non-Object Black” (2015), in cui l’artista utilizza il Vantablack, un materiale altamente innovativo costituito da nanotubi in carbonio capaci di assorbire più del 99,9 per cento della luce visibile, così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto e far scomparire la terza dimensione. Non si può che venire affascinati da questo buco nero (un “Supermassive Black Hole”, canterebbero i Muse) apparso in un così compunto contesto fiorentino, un abisso profondo che spinge a guardarsi dentro. La sensazione è di un “vuoto pieno” dal contrasto spiazzante (che rimanda allo stesso tema del film premio Oscar 2023 “Everything Everywhere All at Once”): “Il vuoto è in realtà uno stato interiore. Ha molto a che fare con la paura, in termini edipici, ma ancora di più con l’oscurità. Non c’è niente di più nero del nero interiore. Questo vuoto non è qualcosa privo di importanza. È uno spazio potenziale, non un non-spazio. Il vuoto è una condizione di inizio, non di fine”.
Il percorso espositivo però sa regalare visioni che sfociano dall’incanto al tormento, come la grande scultura in acciaio e resina “A Blackish Fluid Excavation”, che richiama un incavo uterino contorto o la truculenta opera” First Milk”, che Kapoor - grazie al sapiente utilizzo di silicone, fibre di vetro e vernice – “trasforma” magicamente in resti di una mucca al macello, in maniera talmente realistica da risultarne nauseanti. Ed ecco che di nuovo l’oggetto non è più oggetto, ma diviene altro da sé. Alla dicotomia tra soggetto e oggetto troviamo invece opere specchianti come “Vertigo”, “Mirror” e “Newborn”, che generano invece riflessioni sulla natura dell’essere. Ironico il contrasto con Jeff Koons e le sue superfici specchianti ospitate un paio di anni prima sempre a Palazzo Strozzi, perché Kapoor utilizza gli specchi per generare un senso e domande, mentre Koons per esaltare l’altrui vanità e il prodotto di massa. Ed ecco che il dualismo dell’artista indiano risulta ancora più appropriato, come se si ergesse a naturale antieroe di Koons. Scavare in profondità o rimanere sulla superficie delle cose? A noi rimane l’antico dilemma. Il percorso si conclude con l’opera “Angel”, dove grandi pietre di ardesia ricoperte da strati di pigmento blu intenso sembrano solidificare l’aria, regalandoci una fetta di cielo.
“Anish Kapoor. Untrue Unreal”, Palazzo Strozzi (Firenze), fino al 4 febbraio 2024
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