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Antiriciclaggio da potenziare per un professionista su due

Tra i commercialisti e i consulenti del lavoro prevale ancora una gestione cartacea degli adempimenti affidata al personale interno. Solo la metà esegue un monitoraggio costante della clientela

di Valeria Uva

(lovelyday12 - stock.adobe.com)

3' di lettura

Solo uno su due tra commercialisti e consulenti del lavoro ritiene di essere conforme alle richieste dell’antiriciclaggio, mentre uno su tre non è pienamente soddisfatto del proprio modello di gestione delle verifiche antiriciclaggio. Che gli obblighi di verifica e segnalazione ai fini antiriciclaggio siano vissuti come un peso, un onere difficile da portare a termine da una buona fetta di professionisti tenuti a rispettarli lo dimostrano per primi i numeri – ancora molto bassi – delle segnalazioni di operazioni sospette all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia: decisamente bassi quelli dei professionisti, pari a 5.667 nel 2022 (di cui oltre 5mila dai soli notai) su un totale di 155.426 (si veda il Sole 24 Ore dell’8 maggio).

A confermarlo arriva ora anche il sondaggio condotto da Alavie ( società specializzata nella consulenza sulla compliance, compresa quella per l’antiriciclaggio) su commercialisti e consulenti del lavoro, che nello scorso anno si sono rivolti alla società per l’assistenza e la formazione su questi adempimenti.

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Ebbene al primo step, quello della identificazione del cliente, arrivano quasi tutti: il 100% dei commercialisti intervistati e l’85% dei consulenti del lavoro. Ma già alla fase successiva, quella della valutazione del rischio, non pochi ammettono di non riuscire a passare: il 15% tra i commercialisti e quasi la metà (il 43%) dei consulenti del lavoro).

Ancora più deludente il monitoraggio continuo della clientela, anche dopo la prima identificazione: di fatto la svolge con costanza meno della metà dei commercialisti e poco più di uno su cinque tra i consulenti.

Ma cosa frena gli studi professionali nella gestione di questi adempimenti? Oltre alla complessità delle procedure, pesa anche l’organizzazione: più della metà del campione afferma di delegare la gestione a personale interno che svolge le procedure in modalità cartacea, mentre soltanto il 28% si affida al digitale. Vito Ziccardi, ad di Alavie, vede in questo margini di recupero di efficacia organizzativa: «Occorre una maggiore digitalizzazione delle attività degli studi, per un efficientamento nell’uso delle risorse e, soprattutto, per avere la certezza di mantenere la conformità normativa nel tempo».

Ma a frenare la digitalizzazione sono anche i costi da sopportare. Quasi due su tre (il 66% dei commercialisti e il 72% dei consulenti del lavoro) - secondo il sondaggio Alavie - può destinare a questa voce meno di mille euro all’anno, cifra che si prevede di lasciare invariata anche per gli anni a venire.

Ma a complicare il quadro c’è anche un complesso sistema di regole per la compliance, affidate in buona parte ai Consigli nazionali e quindi diverse, categoria per categoria. Per primi sono partiti i notai, con regole tecniche datate 2018. I notai beneficiano anche di modalità semplificate di segnalazione perché la loro attività in questo campo è basata su singole operazioni e non prevede monitoraggi costanti come invece può accadere, ad esempio, per i commercialisti (regole datate 2020) e per i consulenti del lavoro (con istruzioni fornite un anno fa). Il risultato, come ha segnalato la Uif, è un insieme di segnalazioni«di bassa qualità» basate su adempimenti formalmente corretti ma di fatto poco utili a perseguire il traffico di denaro sporco.

L’Uif, quindi, ha varato un piano basato su un maggior dialogo ma anche su feedback e controlli sui soggetti che segnalano.

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