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Apple e Tesla sotto accusa per il cobalto insanguinato

Insieme al colosso degli Iphone e al gruppo di Elon Musk, anche Microsoft, Alphabet e Dell sono state denunciate da un’ong negli Stati Uniti per aver consapevolmente impiegato metallo estratto da minatori bambini in Congo. Se i giudici daranno via libera sarà la prima causa in tribunale relativa alle forniture di cobalto

di Sissi Bellomo

(Afp)

3' di lettura

Tesla, Apple e altri campioni dell’hi-tech «made in Usa» rischiano di finire alla sbarra per il cobalto insanguinato. Sarebbe il primo caso in tribunale relativo alle forniture del metallo impiegato nelle batterie: una causa che fa da pendent a quella che di recente ha visto ExxonMobil assolta dal reato di aver nascosto all’opinione pubblica il ruolo del petrolio nel cambiamento climatico e che potrebbe fare da apripista ad analoghe azioni giudiziarie contro società che vantano credenziali “green”.

Sono accuse gravissime quelle che International Rights Advocates, una ong americana, rivolge ad alcuni tra i maggiori utilizzatori mondiali di batterie a nome di 14 famiglie della Repubblica democratica del Congo, Paese da cui proviene oltre il 60% del metallo impiegato nei catodi, noto per le continue violazioni dei diritti umani.

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Alla corte distrettuale di Washington DC viene chiesto di autorizzare una class action per il presunto consapevole sfruttamento di minatori bambini, molti dei quali sarebbero rimasti vittime di incidenti mortali o di lesioni permanenti.

Oltre al colosso degli Iphone e al gruppo di Elon Musk, pioniere dell’auto elettrica e dei maxi impianti di storage, nel mirino degli attivisti ci sono altri pesi massimi della tecnologia a Wall Street: nello specifico Microsoft, Alphabet (che controlla Google) e Dell.

L’azione legale risparmierebbe invece le società coinvolte nella produzione e nella lavorazione del cobalto. La querela ne cita alcune, che però non sono processabili negli Stati Uniti non essendovi domiciliate:  si tratta del gigante svizzero Glencore il maggior fornitore mondiale del metallo, le cui miniere sarebbero state teatro di alcuni degli incidenti descritti –, della belga Umicore, che si occupa della raffinazione, e della cinese Zhejiang Huayou Cobalt, identificata come fornitore di Apple, Microsoft e Dell.

Glencore in un comunicato ha negato di «acquistare o processare minerali estratti in modo artigianale» e ribadito di «non tollerare nessuna forma di lavoro infantile, forzato o coatto». Microsoft e Dell hanno avviato indagini interne in seguito alla querela.

Apple in uno statement trasmesso al Sole 24 Ore ha assicurato di essere «profondamente impegnata a rifornirsi in modo responsabile» e di aver fatto da traino all’industria, fin dal 2014, su questo fronte «definendo gli standard più severi ». La società di Cupertino dal 2016 rende pubblica l’intera lista dei suoi fornitori di cobalto «identificati», il 100% dei quali accettano di essere certificati da terze parti: i rapporti vengono troncati immediatamente con chi «non vuole o non può» adeguarsi agli standard, cosa che è successa a 6 raffinatori nel corso di quest’anno.

Tutte le società denunciate da IRAdvocates hanno adottato policies mirate ad escludere dalla propria catena di approvvigionamento l’impiego di manodopera minorile e altre forme di abuso, ma l’ong sostiene che è solo un’operazione di facciata: la mancata applicazione delle policies, afferma la querela, è «un atto intenzionale, compiuto per evitare di mettere fine alla manna di ottenere cobalto a basso prezzo».

La querela di IRAdvocates

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Di più. Big Tech avrebbe addirittura progettato la supply chain in modo da sfruttare a proprio vantaggio le caratteristiche di un sistema «brutale e illegale» come quello congolese, che fa largo impiego dei cosiddetti minatori “artigianali”: in gran parte bambini in età scolare, talvolta di appena sei anni, che spinti dall’estrema povertà delle famiglie accettano di ricevere 1-2 dollari al giorno per scavare a mani nude in stretti cunicoli sotterranei e per trasportare sulle spalle pesantissimi sacchi di cobalto.

Gli incidenti sono molto frequenti e agli atti depositati in tribunale da IRAdvocates sono allegate foto che documentano le ferite e gli arti storpiati di molte vittime. Per loro, per i parenti dei baby minatori deceduti e per chiunque altro decida di associarsi alla class action gli avvocati della ong chiedono un risarcimento dei danni, fisici e morali, un compenso equo per quelli che qualifica come «lavori forzati» e una serie di altre indennità.

(aggiornato alle ore 10,40 del 18 dicembre, per recepire la reazione di Apple)

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