Arjun Das e lo sforzo di sopravvivere alla durezza del quotidiano
La poetica dell’artista indiano fra disegni o miniature realizzate su carta da pacchi, strofinacci e umili cose appartenenti alle persone più povere dell'India
di Rossana Dedola
2' di lettura
L'artista indiano Arjun Das ha lasciato il proprio villaggio natale nel distretto di Giridih, nel Jharkhand, all'età di undici anni per trasferirsi con i fratelli a Kolkata, dove ha cominciato a lavorare come sguattero. Come le altre famiglie del villaggio sorto ai margini di una folta giungla purtroppo spogliata da tagli inconsulti, nemmeno la sua riuscì a farlo studiare perché la scuola si trovava molto lontano e non potevano permettersi una bicicletta.
Nelle pause del lavoro, Arjun ha cominciato a disegnare tra la meraviglia di tutti e soprattutto di un cliente del ristorante cui aveva fatto un ritratto che gli ha consigliato di iscriversi in una scuola d'arte. L'artista è stato l'unico di tutta l'area rurale del suo distretto a finire gli studi in arti visive nella Rabindra Bharati University, l'università di Tagore.
Ho potuto vedere i suoi lavori in una mostra organizzata in Svizzera, dove ha soggiornato come artista in residenza, come poi in Belgio.
Disegni o miniature
Si tratta di disegni o miniature realizzate su carta da pacchi dedicate a strofinacci, sandali, canottiere, umili cose appartenenti alle persone più povere dell'India. Il suo interesse si rivolge infatti soprattutto ai lavoratori manuali che vivono negli slums di Kolkata e che tutti i giorni si recano nel più grande mercato della megalopoli per offrirsi come forza lavoro con i propri strumenti che portano sempre con sé: martelli, tenaglie, picconi, mazze.
L'artista ha cominciato a frequentarli quotidianamente, spesso ha passato la notte in bugigattoli dove si dorme anche in otto, disegnando e ascoltando le loro storie, e sentendosi sia un “outsider” che un “insider”. Anche le sculture e i bassorilievi hanno dimensioni ridotte, non perché Das non senta la grandezza dello sforzo di sopravvivere alla durezza del quotidiano di coloro che appartengono alle classi più basse del sistema indiano, ma per costringere chi guarda a osservare attentamente quella povertà piena di dignità e quegli oggetti carichi di storia. Sono rappresentati semplici utensili, dothi scoloriti, vecchie infradito che hanno protetto piedi abituati a percorrere chilometri, oppure scorci delle misere casupole.
Li ricrea con perizia artistica e tanto cuore da riuscire a comunicare la vastità umana di quei piccoli mondi. Si serve solo di materiale di riciclo, intaglia con abilità straordinaria pezzi di legno scovati nelle baraccopoli per dar vita a scene microscopiche che riproducono perfettamente i traballanti interni degli slums con gli interruttori consunti e le tubature a vista cui sono appesi recipienti di plastica e spazzolini da denti. Oppure ricrea un lettino di corde del suo villaggio in cui gli attrezzi di lavoro nascosti sotto alludono al duro lockdown dovuto alla pandemia.
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