Arriva il kit per scovare sostanze tossiche nel latte
Si tratta di un sistema a basso costo per le aziende lattiero casearie messo a punto da Enea in collaborazione con l’Università di Torino per individuare l’aflatossina M1
di Davide Madeddu
2' di lettura
Un kit diagnostico per rintracciare sostanze tossiche nel latte. Si tratta dell'iniziativa portata avanti dall’Enea che ha messo a punto un sistema diagnostico per aziende lattiero casearie e laboratori di analisi, in grado di rilevare in modo rapido, efficace e a basso costo la presenza dell’aflatossina M1 nel latte crudo: una sostanza considerata cancerogena per l’uomo che proviene da animali nutriti con mangimi contaminati.
La tecnica di analisi messa a punto dai ricercatori dell’Enea, che hanno collaborato con l’Università di Torino, prevede – «per la prima volta» – l’impiego di anticorpi monoclonali prodotti da una pianta dello stesso genere del tabacco (Nicotiana benthamiana), per “intercettare” le tossine presenti nel latte anche a concentrazioni molto basse, «ben al di sotto dei limiti fissati per legge, come hanno dimostrato le sperimentazioni condotte su campioni di latte crudo contenenti diverse concentrazioni di aflatossina M1».
«Si tratta della versione green di Elisa – dice Marcello Catellani del Laboratorio Enea di Bioprodotti e bioprocessi – uno dei migliori e più diffusi metodi di screening rapido per il rilevamento delle tossine negli alimenti e nei mangimi animali, che permette l'analisi accurata, rapida e a basso costo di un numero elevato di campioni».
A spingere l'istituto di ricerca verso nuove sperimentazioni anche la disposizione dell’Unione Europea che ha fissato una concentrazione massima di aflatossina M1 di 50 nanogrammi/litro nel latte crudo, nel latte trattato termicamente e in quello destinato alla produzione di formaggi. E ha ulteriormente abbassato questo valore soglia negli alimenti destinati ai neonati e ai bambini , che risultano tra i maggiori consumatori di questo alimento.
Per la produzione degli anticorpi, i ricercatori si sono avvalsi di un sistema di produzione alternativo ed economico offerto dal Plant Molecular Farming, un metodo che usa le piante per produrre molecole complesse.
«Si tratta di un approccio biotecnologico – aggiunge Catellani – che può liberare la produzione di anticorpi dai classici e più costosi sistemi basati su colture di cellule animali, che richiedono strutture e ambienti dedicati, reagenti e strumenti specifici per la loro crescita in condizioni di sterilità, come ad esempio bioreattori e incubatori».
Inoltre il sistema consente di operare «in condizioni non sterili (serra, acqua, luce, suolo) con costi ridotti al minimo». Un metodo che, come sottolinea anche Cristina Capodicasa del Laboratorio di biotecnologie dell'agenzia di ricerca «risulta vantaggioso per rapidità e resa» dato che «richiede solo 1-2 giorni per la crescita degli agrobatteri, che hanno il compito di veicolare l'informazione genetica nella pianta, e dopo circa una settimana è possibile raccogliere le foglie da cui estrarre gli anticorpi».
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