A tu per tu

«Ascoltare, prima di tutto: così portiamo la voce della Chiesa nel mondo»

di Carlo Marroni

(IMAGOECONOMICA)

7' di lettura

«Ero in riunione, mi compare sul cellulare una chiamata da numero sconosciuto. Di solito quando non so chi sia a chiamare, se sono impegnato non rispondo. Quella volta non so perché l’ho fatto. “Pronto, sono in riunione…” E dall’altra parte: “Buon giorno, è Paolo Ruffini?”. Penso: ecco, è un call center. Dirò se possono richiamare più tardi. Dico comunque. “Sì, sono io”. E prima che possa continuare, la persona che chiamava aggiunge: “Sono Papa Francesco, posso parlarle?».

Paolo Ruffini, prefetto della Comunicazione della Santa Sede, racconta come è nata la sua nomina a capo di un ministero del Vaticano, la prima volta nella storia d’Oltretevere che un laico assume la carica di “ministro”, che sino ad allora era sempre stata riservata ad alti prelati, monsignori, vescovi, cardinali. Quando il Papa lo chiama, nel 2018, è da quattro anni direttore dei programmi di TV2000 e di Inblu, la televisione e la Radio della Cei, che producono informazione e programmi di qualità. «Non posso dire che il Papa mi conoscesse bene. Lo avevo incontrato sì, quando ha ricevuto i dipendenti della televisione. Poi per una intervista. E in altre occasione legate alla Tv. Sapevo che era informato sul lavoro fatto da me e Lucio Brunelli, il direttore delle news. Mi chiese di vedermi. E quando mi ha ricevuto, a Santa Marta, mi ha spiegato il progetto di riforma della comunicazione della Santa Sede. Mi ha chiesto del mio lavoro, della mia esperienza, e alla fine mi ha detto mi mandargli il curriculum. Insomma, è stato un vero colloquio di lavoro. Ma diverso da tutti quelli che mi era capitato di fare nella mia vita professionale. Non credo avesse ancora deciso. Così gli dissi tutto quello che non so fare…». Non gli nascose che nella sua carriera professionale di giornalista e direttore non si era mai direttamente occupato di Vaticano e «che non sono una persona di pubbliche relazioni». Ruffini, 65 anni, palermitano di nascita e romano di adozione, è molto affabile e ironico, ma nella vita pubblica è notoriamente una persona schiva e soprattutto distante anni luce dal circo mediatico politico-televisivo. Eppure ha ricoperto incarichi di prima linea sia nella carta stampata ma soprattutto in radio e tv. Per anni inviato di cronaca e poi di politica prima al Mattino e quindi al Messaggero, di cui diventa vice direttore. Nel 1996 viene chiamato a dirigere il Gr Rai, appena unificato,«un incarico che accettai dopo aver a lungo riflettuto ed essermi consultato con mia moglie, che non era per nulla convinta. Anzi era contraria. Non avevo mai fatto radio, e lavorare in un giornale mi piaceva molto». Quella del Gr si rivelerà un’esperienza preziosa, in cui forte era la sfida di unificare le varie redazioni, progetto che pur in forme diverse si ripresenterà in seguito in Vaticano. Poi gli anni in tv alla guida di Rai3, dove lancia o consolida programmi di vasto successo, tuttora colonne portanti della terza rete, come «Che tempo che fa» di Fabio Fazio, «Report», allora di Milena Gabanelli, «Blu Notte», «Presa diretta» e anche «Ballarò» di Giovanni Floris. Certo un palinsesto coraggioso, e distante nei contenuti e nello stile da quello che sarà chiamato a dirigere anni dopo. «Quella Rai3 era la continuazione della migliore tradizione di Angelo Guglielmi, una tv di grande qualità, possiamo dire colta, che tuttavia senza snobismi elitaristi accetta la sfida degli ascolti». Poi la direzione de La7, prima con editore Telecom e poi con Cairo, un’esperienza che considera preziosa per gli incarichi futuri. «Compresi davvero il mondo della televisione commerciale» e i meccanismi che presiedono il settore dei diritti cinematografici e sportivi.

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E quindi la direzione di TV2000, «una tv cattolica, non solo per cattolici». Sulla tv dei vescovi un piccolo ricordo personale: «Mia madre mi diceva sempre: è quella la televisione che dovresti dirigere un giorno. Le rispondevo scherzando che non era lei l’editore. Ma poi fu così, assunsi l’incarico nel 2014 poco prima che lei venisse a mancare. Fu una proposta bellissima e inaspettata. Così dissi ridendo a mia madre che alla fine aveva avuto ragione lei». Infine la chiamata del Papa nel 2018. È così che si ritrova dopo tre anni dalla sua istituzione, alla guida del Dicastero della Comunicazione, a proseguire una riforma-chiave del pontificato, che ha riunito Osservatore Romano, Radio Vaticana, il sito web di informazione Vatican News, gli account social, il Centro Televisivo Vaticano, la Libreria Editrice Vaticana, la Sala Stampa, la Tipografia Vaticana, la Filmoteca vaticana e le funzioni del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali. Un dicastero di più di 500 persone, di cui quasi la metà giornalisti, trasmissioni radio in oltre 40 lingue, altrettante sul sito. «La nostra missione è portare al mondo il messaggio della Chiesa. Farlo in molte lingue, direttamente, è la nostra grande forza. Questo comporta un impegno davvero grande (anche se poco visibile) delle molte persone che lavorano nei media vaticani. Richiede risorse importanti, ma garantisce che il messaggio possa essere accessibile a quante più persone è possibile. Non è una questione di numeri, ma di missione. È un dire: dovunque tu sia, qualunque sia la tua lingua per noi sei importante. Noi per te ci siamo». Qualche numero però aiuta a capire. Sono state 250 milioni le pagine di Vatican News – il portale informativo nato a dicembre del 2017 – lette nel 2020, con punte di 46 milioni al mese durante il primo lockdown, con una media mensile di 21 milioni. Radio Vaticana, nata nel 1931, produce 12mila ore di trasmissione in un anno in 41 lingue (69 nazioni di provenienza di chi ci lavora), è oggi ritrasmessa da più di mille emittenti nel mondo, l’Osservatore Romano, fondato nel 1861, ha circa 21.500 lettori al giorno, che diventano 40mila considerando le versioni linguistiche stampate e redistribuite dalle diocesi. Vatican News è nato come portale informativo su web nel 2017, ed è completamente gratuito, mentre da poche settimane per l’Osservatore (in versione digitale online) viene chiesto un modesto abbonamento di 20 euro annui. A questo va aggiunto un dato sugli account social di Papa Francesco: Pontifex twitta in 9 lingue con quasi 52 milioni di follower, i messaggi del 2020 sono stati visti 35 miliardi di volte. Quale è la formula “segreta” per comunicare il Papa, e in particolare questo Papa? «Lo sforzo, la missione posso dire, è di cercare di raccontare il messaggio cristiano nella lingua di ogni Paese, sposando la cultura e il linguaggio dei diversi popoli. La formula è non ritenersi centrali, siamo solo uno strumento». L’ “inculturazione” fu la chiave di successo dei gesuiti nel mondo, a partire da Matteo Ricci. «L’idea è quella di una missionarietà non coloniale. E per questo l’ascolto deve venire prima di tutto. Ascolto e incontro con chi ti vuole sentire o ti legge: questo per me ha un valore fondante, non solo per noi del Vaticano, ma per tutto il mondo dell’informazione». Una chiave d’azione certamente in sintonia con la pastorale di Francesco, che rifugge ogni idea di proselitismo. «È questa la nostra missione, prima della struttura, che pure è importante». Già, perché unificare i media vaticani non è stata impresa da poco, ma è andata in porto. «L’azione di convergenza non è stato un annullamento delle specificità. L’Osservatore è un giornale di approfondimento sui temi internazionali, la teologia e la cultura, mentre Vatican News e Radio Vaticana sono più sulle news immediate, interviste e reportage. Ma tutti si integrano bene». Certo, questo ha un costo economico sul bilancio vaticano, che come sappiamo è in rosso anche per il Covid. «Sulla spending review c’è stato un grosso sforzo, è stata anche una delle ragioni della riforma, per ottimizzare le risorse. Ad oggi risparmiamo 8 milioni all’anno sui budget iniziali, avendo aumentato enormemente l’output informativo. Questo grazie anche ad una squadra di eccellenti professionisti». Un impegno che mette Ruffini in prima linea, sia verso l’esterno ma anche in Curia. Unico laico (anche se nipote di un cardinale, Ernesto Ruffini) in mezzo a porporati: è visto con un po’ di sospetto? «Assolutamente no, i rapporti sono sereni e collaborativi con tutti, in effetti questo fatto del laico è qualcosa a cui non penso mai. Ciò che ci unisce è il Battesimo. Ma certamente è una sfida per la Chiesa riscoprire come essere una cosa sola nella diversità dei carismi. Il Papa, come vediamo, è molto attento a questo aspetto, come anche agli incarichi alle donne». Sente spesso Bergoglio? «Spesso o raramente sono due avverbi che non rendono il senso del lavoro di chi è chiamato ad essere al servizio del Papa e della Chiesa. Lui sa che mi può chiamare sempre. Io so che se ho bisogno lui c’è. Ma una cosa va detta: il Papa chiede a tutti di lavorare in autonomia, sulla base del suo magistero». Un’ultima cosa, un ricordo personale: suo padre, Attilio Ruffini, esponente dc di primo piano, nel 1979 come ministro della Difesa fu l’artefice della spedizione della Marina Militare in Vietnam per salvare i profughi in fuga, i celebri boat people. Fu la prima missione per soccorrere i migranti in mare, un fatto storico, specie se vista con le lenti della politica attuale che spesso tratta i rifugiati come merce propagandistica. Come lo ricorda? «Tante cose ho in mente di quella vicenda. Ma una su tutte: in famiglia eravamo sorpresi e orgogliosi di quella scelta; fieri e commossi che l’Italia, attraverso mio padre, avesse deciso di fare qualcosa di unico, per certi versi persino insensato: correre dall’altra parte del mondo per salvare un pugno di naufraghi disperati, alla deriva, senza starsi a domandare tanto perché noi e non altri; ingenuamente felici del modo in cui quella decisione fosse stata condivisa da tutto il Paese, e di aver avuto una lezione di senso della vita, e anche della politica, e del ruolo delle Forze Armate».

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