Asor Rosa, quando le lettere e l’ideologia andavano insieme
È probabile che con la morte di Alberto Asor Rosa sia definitivamente finito il tempo in cui gli intellettuali credevano in un ruolo e in un modo d’essere coscienza critica
di Giuseppe Lupo
2' di lettura
È probabile che con la morte di Alberto Asor Rosa, scomparso ieri, a Roma, all’età di 89 anni, sia definitivamente finito il tempo in cui gli intellettuali credevano in un ruolo e in un modo d’essere coscienza critica, interpreti di una vicenda nazionale che conservava un qualcosa di epico e di definitivo. L’opera di Asor Rosa reca questi segni sin dall’inizio, dall’ormai lontano 1965, anno in cui apparve il saggio Scrittori e popolo. Questo libro marca subito il territorio in cui circoscrivere i fenomeni del moderno come esperienze di una civiltà dove la nozione di individuo si contrappone a quella di massa, dove i fatti
privati convivono con una dimensione populista, quando a questo termine si dava un’interpretazione ancora libera dalle contraddizioni degli ultimi anni.
Critico, studioso, accademico presso l’Università La Sapienza di Roma, allievo di Natalino Sapegno e deputato del Partito Comunista Italiano per il biennio 1979-80, Asor Rosa ha creduto in una letteratura gramsciana che oggi non esiste più e, al di là delle tante, potenziali derive ideologiche, ha mantenuto fede a una regola fondativa, eppure passibile di false interpretazioni: che la scrittura sia una testimonianza civile, che l’insieme delle opere letterarie costituiscano il patrimonio identitario di una nazione, che l’incerto rapporto tra classi umili e classi dirigenti rappresenti il lascito di un’epoca probabilmente destinata a sopravvivere alle stesse ideologie e alla loro fine. Solo così diventa possibile comprendere lo sforzo di organizzare il quasi ventennale lavoro per la «Letteratura Italiana Einaudi», cominciato nel 1982 e terminato nel 2000: un’opera che aspira alla totalità, pur nelle differenziazioni, e getta le basi per il successivo lavoro, i tre volumi della Storia europea della letteratura italiana (2009), in cui ancora una volta la tensione di dare origine al grande polittico interpretativo convive con le forme di una tanto grandiosa quanto ambiziosa interazione fra epoche storiche e vicende culturali. Potrebbe risultare una forzatura ricordare Asor Rosa negli esiti di una letteratura che si nutriva della vastità degli orizzonti della Storia, ma si trovano soprattutto in questa prospettiva le ragioni per le quali oggi la sua rimane una lezione ancora utile al nostro tempo, irrimediabilmente lontano da quelle temperie ma non per questo meno desideroso di ricomporsi in una sua unità.
Lo indicano i titoli e gli argomenti delle sue monografie,
per esempio Genius italicum. Saggi sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo (1997).
Ma lo attestano anche quelle opere dove la riflessione saggistica si slarga nella confessione politica, per non dire nell’azzardo di idee: Le due società, Ipotesi sulla crisi italiana (1977), Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento sull’apocalissi (1992), La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana (2002).
Un filo rosso unifica questa scrittura eterogenea, che ha meritato di essere racchiusa in un Meridiano Mondadori e che a partire dagli anni Duemila, cioè dal suggestivo L’alba di un mondo nuovo (2002) si è accresciuta anche di un registro più strettamente narrativo, quasi dichiarasse l’urgenza di cercare forme sempre più inedite per interrogare il proprio tempo e interrogarsi su quel tema che sta nel titolo di un libro-intervista, a cura di Simonetta Fiori, uscito nel 2009: Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali.
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