ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùil ruolo dei media

Assalto al Congresso: perché non è colpa della rete ma di Trump

I social network hanno preso posizione cancellando i post del presidente repubblicano. Ma la responsabilità dei disordini non è da ricercare nella cassa di risonanza del web

di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

Assalto al Congresso, come Trump ha infiammato gli estremisti

3' di lettura

Di chi è la colpa di quello che è successo a Washington? Facile: di Trump. Qualcuno azzarda: anche dei social network, che hanno fatto da cassa di risonanza alle bugie dell’ancora per poco presidente e dei suoi inviti alla violenza e alla rivolta.
Di qui, di nuovo, l’invocazione di una autorità pubblica che, novello “ministero della verità”, decida cosa eliminare dal dibattito e cosa no, oppure di un obbligo in capo alle piattaforme di controllare autonomamente e cancellare nel tempo più breve le notizie false, almeno in ambiti particolarmente delicati come la politica. Anche dopo questa vicenda, continuiamo a non essere convinti della bontà di queste ricette.

La campagna mediatica

Partiamo da un dato: l’insurrezione, perché di questo si è trattato, è stata consentita da una campagna mediatica durata settimane, nel corso delle quali Trump e il suo seguito più stretto hanno ripetuto, con una forza pari soltanto alla assenza di prove, di avere ottenuto una landslide victory e che il risultato era stato falsato da brogli. Poi, lo stesso Trump ha incitato la massa giunta al suo comizio a marciare sul Campidoglio, istigando, così, la folla a utilizzare la forza per interrompere una procedura di rilievo costituzionale, in un momento delicatissimo, affermando che egli sarebbe stato al loro fianco.Ora, il presidente degli Stati Uniti non ci pare abbia bisogno di Twitter, Facebook o Instagram per far giungere la propria voce ai sostenitori, soprattutto a quelli più accesi. La sua parola troverà sempre un palco. E anche se qualche giornalista, come è già accaduto, gli dovesse spegnere il microfono davanti al naso, ci sarà comunque qualcuno che invece ne riporterà il messaggio. O vi saranno modalità alternative ormai facilissime da creare, specie online, mediante le quali una figura tanto rilevante può riuscire a diffondere qualunque tipo di pensiero, anche falso, anche scioccante.

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Assalto al Congresso, come Trump ha infiammato gli estremisti

L’intervento dei social network

Anzi, proprio per la rilevanza della figura, qualunque tipo di pensiero, soprattutto se falso o scioccante, è di enorme interesse pubblico, tanto da renderne opportuna, se non doverosa, la divulgazione. Sicché, ci viene da pensare che il mancato o ritardato o insufficiente intervento dei social network nello smorzare l’impatto di una simile offesa alla democrazia non abbia influito granché. Certo, Trump ha utilizzato anche i social network, ma come si è servito di questi, si sarebbe potuto servire di altri. E istituire un obbligo di intervento, su impulso dell’autorità o meno, ci pare porti più danni che vantaggi. Da un lato, appaltare alla pubblica amministrazione il potere di attribuire patenti di verità è pericoloso e gli eventi di mercoledì sono la migliore dimostrazione di quanto, se l’autorità sbaglia o è in malafede.

Il ruolo delle aziende private Twitter e Facebook

Dall’altro obbligare i provider a setacciare la propria piattaforma ne snatura il ruolo di aziende private, li rende giudici del vero e del falso e tende a impoverirne i contenuti: l’ordinamento così non si limita, come dovrebbe fare, a regolare un fenomeno, ma rischia di stravolgerlo.Certo, ciò non significa che i social non possano intervenire. Ci pare anzi salutare che, con una scelta autonoma, essi abbiano cercato di evitare, per quanto possibile, di essere sfruttati per campagne di disinformazione e di violenza. Così, il tentativo di limitare la diffusione di menzogne deleterie per il dibattito pubblico sembra una scelta saggia, benché non decisiva per affrontare il fenomeno del danno, potenzialmente devastante, di una disinformazione così massiccia e proveniente dal potere incarnato.

Il ruolo dei giornalisti (e degli editori)

E allora cosa potrebbe funzionare? Non vorremmo essere condizionati dai vecchi schemi con cui siamo cresciuti, ma ci convince ancora l’idea che in materia di manifestazioni della libertà di pensiero la “ricetta” migliore non sia quella di evitare tout court che qualcuno avveleni le acque, ma quella di creare un ecosistema in grado il più rapidamente ed efficacemente di ripulirsi da quei veleni. La democrazia è fragile, come è stato detto, ed è difficile evitare che la repubblica abbia le sue notti, ma «non c’è notte tanto lunga e buia da non permettere al sole di risorgere», se restano saldi alcuni principi. Due elementi indispensabili perché ciò accada sono un “mercato delle idee”, latamente inteso, il più pluralista e aperto possibile e un sistema dei media ricco di editori economicamente indipendenti e di giornalisti autorevoli. Questi ultimi, soprattutto, quando hanno una presa forte sul pubblico, sono in grado di smascherare le bugie circolanti, più pericolose se “in bocca” al potere, bilanciando almeno in parte l’effetto gregge che l’informazione in rete tende a creare, facendo rimbalzare fatti e opinioni all’interno di bolle monocolore. Non è un caso, forse, che su una porta del Campidoglio violato fosse graffiata la scritta: “murder the media”.

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