Assistenza territoriale e carriere dei medici, i nodi della sanità
L’europa impone tempi stretti senza riuscire a rispettarli c’è il rischio di perdere i finanziamenti
di Giovanni Fattore
3' di lettura
Il sistema sanitario Italiano è considerato tra i migliori al mondo: spende molto poco, circa il 9% del Pil contro il 10-11% di Francia e Germania, e ha la più lunga speranza di vita, sostanzialmente allo stesso livello di Svizzera e Spagna. Certo, contano le altre determinanti della salute come il clima, le abitudini alimentari, il movimento e l’attività sportiva (specie se non agonistica), il fumo (anche quello con i nuovi dispositivi), la sicurezza sul lavoro e dei trasporti, la criminalità. Anche su questo l’Italia è posizionata bene a livello internazionale, ma con un’eccezione importante che l’Ocse non smette mai di ricordarci. Con la Grecia, l’Italia è il Paese europeo con il più alto livello di prevalenza dell’obesità infantile. Si tratta di un’emergenza nazionale, sottovalutata a livello politico ma anche tecnico, perché l’obesità infantile è un fattore di rischio per l’obesità negli adulti e di una serie di patologie metaboliche e cardiovascolari. È anche un problema che mette in evidenza la differenza tra Nord e Sud: la pessima performance nazionale è quasi totalmente attribuibile ad alcune regioni del Sud, in primo luogo la Campania dove un bambino su tre è sovrappeso o obeso. Comunque, ciò non toglie che il Ssn sia eccellente e sostenibile, anche se con inaccettabili variazioni regionali e, principalmente, per l’assistenza ospedaliera, perché i centri di eccellenza sono quasi assenti al Sud e si concentrano a Milano, Bologna e Roma. I confronti internazionali ci dicono anche altro: le nostre cenerentole sono l’assistenza territoriale e la medicina generale (i medici di famiglia), quest’ultima rimasta sostanzialmente invariata dai tempi della riforma del 1978 che istituì il Ssn.
Nella maggior parte delle regioni italiane, compresa la Lombardia, l’assistenza territoriale è debole perché troppo frammentata, eccessivamente condizionata dalle associazioni sindacali dei medici di famiglia e difficilmente governabile dalle Asl. È anche per questi motivi che che la Missione 6 del Pnrr, fortemente voluta dal Ministro Speranza e con qualche resistenza da parte del resto del governo, da ampio spazio all’assistenza territoriale. L’obiettivo è sviluppare in modo il più possibile omogeneo su tutto il territorio nazionale servizi più vicini ai cittadini: gli infermieri di comunità, l’assistenza domiciliare integrata, le case e gli ospedali di comunità, che in realtà forse non dovrebbero essere denominati ospedali perché sono strutture con pochi posti letto che coprono bisogni a cavallo tra il sanitario (le cure) e il sociale (il supporto alle persone fragili e ai loro caregivers). Gli accordi con la Commissione Europea hanno imposto all’Italia tempi strettissimi per la realizzazione di queste strutture e i finanziamenti sono quasi esclusivamente in conto capitale. Ciò pone due questioni importanti. Ce la farà l’Italia a rispettare i tempi previsti, data la lentezza delle procedure burocratiche necessarie per la costruzione o riconversione delle nuove strutture? Se così non fosse, l’Italia rischierebbe di perdere buona parte dei finanziamenti europei.
L’altra riguarda cosa fare in queste nuove strutture; il DM 77 da indicazioni precise, forse persino troppo, ma quello che conta è la progettazione organizzativa, che non può che partire dal basso. In parallelo al Pnrr, si è aperto un dibattito sui medici di famiglia che, semplificando, contrappone due posizioni: da un lato lo stutus quo sostenuto dalla galassia sindacale e dall’altro il loro passaggio alle dipendenze del Ssn. La prima posizione rischia di vanificare gli sforzi per sviluppare l’assistenza territoriale perché 30 anni di accordi nazionali non hanno prodotto cambiamenti significativi; in molte regioni non è decollato l’associazionismo, malgrado i generosi incentivi economici, i medici di famiglia continuano a lavorare in studi angusti e senza tecnologie e l’integrazione con gli altri servizi sanitari è rimasta limitata. L’altra posizione avrebbe il vantaggio di rendere tutti i medici del Ssn uguali, con maggiori opportunità di crescita professionale e di progressione di carriera per gli stessi medici di famiglia e più opportunità di integrazione tra i diversi servizi sanitari e socio-sanitari. Le indagini disponibili indicano una spaccatura tra i medici di famiglia, con i più giovani che sarebbero favorevoli al passaggio al SSN e quelli più anziani contrari. Anche su questo il nostro Paese è generazionalmente diviso. La politica è mediazione; si può prevedere una soluzione di compromesso accettabile sul piano della razionalità economica, gestionale e sanitaria: lasciare agli stessi medici di famiglia la libertà di scelta tra i due regimi. Il futuro del Ssn passa da quello dell’assistenza territoriale e quest’ultimo dipende dalla leadership politica, più che tecnica, dei Ministri della Salute e dell’Economia.
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