Atenei più inclusivi e selettivi per formare le élite di domani
di Carlo Carboni
3' di lettura
Spesso gli opinionisti si sono chiesti se mai ci sia stata negli ultimi 25 anni una classe dirigente in Italia. A me sembra ovvia la risposta affermativa.
Certo, c’è da accordarsi su cosa intendiamo con classe dirigente, viste le vaghe, persino nebbiose, definizioni date da Pareto e Mosca. L’Oxford Handbook of Italian Politics inizia proprio da questa espressione tutta italiana – classe dirigente – che trova malferme traduzioni in inglese. James L. Newell (2015) sottolinea che, in democrazia, la classe dirigente dovrebbe riconoscersi negli eletti, cioè nelle élite parlamentari e politiche-istituzionali, titolate a esercitare potere legittimo, l’autorità. Tutti, o quasi, sappiamo però che le élite finanziarie e industriali, culturali e dei media, della scienza e quelle sportive, che hanno infiammato d’orgoglio l’Italia estiva nello sport internazionale, tutte queste élite, sono parte delle classi dirigenti che incidono sulla vita economica, sociale, politica del Paese e profondamente sul suo “umore” con il loro esempio sul campo.
Il Paese sta recuperando ottimismo e voglia di progresso umano, economico e tecnologico grazie alla “magia” di Mattarella, che in meno di 3 anni ha traghettato il Paese dall’alba opaca della vittoria elettorale populista del 2018 a un governo tecnico-politico, agli antipodi del populismo e del sovranismo. Mario Draghi presidente del Consiglio è più che un prezioso indizio che in Italia una classe dirigente c’è (e c’è sempre stata): la circolazione settoriale delle élite ha consentito di risolvere il problema dell’instabilità politica in un momento tremendo per il Paese. Tuttavia, il cambio di guida ha rivelato il connotato fragile delle classi dirigenti italiane, la qualità mediamente scadente delle nostre élite politiche, tagliate per la campagna elettorale, ma deludenti come classi di governo. Il problema non è quindi l’assenza, quanto piuttosto la qualità della classe dirigente politica italiana.
La classe dirigente c’è ed esistono ancora oggi luoghi formativi e di reclutamento delle élite, come la Banca d’Italia, dalla quale uscì anche un presidente della levatura di Carlo Azeglio Ciampi. La qualità dell’élite politiche, al contrario, stenta e peggiora e ciò è anche dovuto alla scomparsa delle vecchie scuole di partito; soprattutto, l’istruzione superiore dei cittadini, da cui la politica recluta, è molto scadente nei numeri. Del resto, i capi politici, nel reclutamento, non guardano tanto alla competenza dei loro seguaci quanto alla loro fedeltà. L’attenzione, di conseguenza va spostata necessariamente sulle istituzioni formative e educative, scolastiche e universitarie. Per ottenere un efficace impatto di queste istituzioni (conoscenze, mobilità sociale), è necessario svecchiarne metodi e contenuti, tenendo fermi due profili di sistema: l’inclusione e la selezione. Purtroppo, la nostra rete scolastica superiore e, soprattutto, i nostri atenei sono poco inclusivi e poco selettivi.
È da 40 anni che i sociologi criticano il profilo esclusivo della nostra università, che recluta i suoi studenti in larghissima parte dal ceto medio in su. La conseguenza è il blocco di non pochi ascensori della mobilità sociale, soprattutto dei figli degli outsider. Il diritto allo studio è purtroppo uno dei tanti temi aperti sulle scollature socio-territoriali nazionali. La nostra istruzione superiore, inoltre, si caratterizza anche per una mediocre selettività valutativa. Questo è dovuto a una meritocrazia di “carta” che guarda al rispetto di leggi e regolamenti, senza valorizzare il merito nella sostanza: il risultato è un confortevole appiattimento della selezione.
In controtendenza, negli ultimi 10-15 anni sono cresciute alcune scuole speciali universitarie, che hanno assunto una certa notorietà anche per la loro selettività e attenzione al merito. Tuttavia, sono esperienze esclusive e quindi costose. Sono soggette a un inconveniente analogo a quello delle grandes écoles francesi: diventano macchine di riproduzione delle élite mediante élite, un sistema chiuso, il gradino in più i che i figli delle élite sono in grado di fare rispetto agli altri. Di nuovo emergono sia il diritto allo studio per un accesso inclusivo per merito sia l’esigenza di investire su una rete di poli universitari d’eccellenza. Rivedere metodi e contenuti ispirati da finalità inclusive e selettive garantirebbe un sistema d’istruzione superiore più dinamico, sia per la formazione della classe dirigente futura (a rafforzare le élite di governo ci ha pensato, con una magia, Mattarella) sia per i cittadini, che con l’ascesa dell’uomo comune tra le élite populiste, hanno spesso guadagnato posti in prima fila, in politica. La formazione della classe dirigente in futuro dovrà tener conto di questo “trasporto” dei vertici partitici verso politiche populiste, inclini a premiare più gli outsider con politiche di assistenza che gli insider di ceto medio, che a lungo in Italia hanno beneficiato dei meccanismi del consenso politico. La qualità dell’élite dovrà adeguarsi anche all’altra grande trasformazione, l’inevitabile integrazione delle classi dirigenti nazionali a quelle europee.
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