Attenti, i padroni del mondo hanno cinque anni
Chi può dirci cosa accadrà quando, tra venti o trent'anni, il mondo sarà loro e gli tornerà alla mente il tempo dell'infanzia, la città con le strade deserte, il silenzio irreale infranto solo dalle sirene delle ambulanze, le scarpe fuori dalla porta, i volti con le mascherine?
di Federica Manzon
3' di lettura
Perché ci sia un prima e un dopo deve esserci un trauma. Perché ci sia trauma, mi suggerisce l'etimologia, deve esserci una ferita, fisica o psichica. E perché un evento traumatico lasci un segno indelebile nei comportamenti individuali e collettivi, mai più come prima, credo sia necessario che a essere intaccato da quella ferita sia il nostro immaginario. In queste settimane sotto l'ombra del Coronavirus eserciti di genitori spiano i figli adolescenti chiusi in casa e fanno congetture sulla tenuta emotiva degli universitari fuorisede interpretando gli sguardi a bassa risoluzione nelle chiamate sul FaceTime.
È la generazione di mezzo a preoccupare tanto. I non più bambini e non ancora adulti. Torneranno nel mondo più generosi e solidali o più depressi e impauriti? E che cosa se ne faranno di questa inedita esperienza limite? Niente, penso. Con buona probabilità non se ne faranno niente. Le loro relazioni non avranno perso di intensità, dal momento che sapevano gestirle benissimo online. Non avranno perso il lavoro, poiché difficilmente ne avevano uno. Se la libertà di viaggiare sarà limitata, si adatteranno a spazi più ristretti.
Adattarsi è il verbo chiave. Perché questa emergenza non ha messo in circolo nessuna energia, non ha chiesto ai ragazzi di scendere in prima linea pronti al sacrificio, non ha dato possibilità di eroismi. Ha forzato l'inerzia, flirtato con l'apatia. Ha costretto a casa, tra il divano e il frigorifero.
Tra Netflix e Instagram. Nella maggior parte dei casi che conosco, i contatti con il mondo di prima – gli studi, gli amici – è continuato, ma depotenziato, avvolto da una nebbia lattiginosa che alla sera porta a un umore da sbornia digitale. Quella generazione di mezzo uscirà dall'emergenza con uno spossamento lieve. La ripresa sarà cauta. Non permetterà festeggiamenti sfrenati, e non si farà nessuna rivoluzione (né per il clima, né per la globalizzazione sostenibile). Ma, senza che ce ne rendiamo conto, il vecchio tran-tran sarà tornato nei nostri passi: forse con qualche residuo di lezione online, le birre in locali meno affollati, la corsa al parco invece della piscina, le vacanze nella casa di famiglia e niente Vietnam.
E i bambini invece? I cinquenni, quelli che passano le giornate in casa presi dai giochi e fungono da scusa agli adulti per prendere una boccata d'aria? Quelli che hanno visto di colpo scomparire le interazioni con i coetanei che rappresentavano il tessuto principale delle loro giornate? Anche loro probabilmente torneranno alla vita come se niente fosse. Ma a loro darei più attenzione.
Chi può dirci cosa accadrà quando, tra venti o trent'anni, il mondo sarà loro e gli tornerà alla mente il tempo dell'infanzia, la città con le strade deserte, il silenzio irreale infranto solo dalle sirene delle ambulanze, le scarpe fuori dalla porta, i volti con le mascherine? Per loro, molto più che per qualsiasi altro, questo strano tempo avrà inciso un segno nell'immaginario.
Sarà la loro Chernobyl. E forse vorranno fare di tutto perché tempi simili non accadano più, o forse assomiglieranno agli stalker, i giovani che non riescono a staccarsi da Chernobyl e visitano ossessivamente la Zona senza preoccuparsi della salute. Il futuro sta già tutto accadendo nella loro immaginazione, e noi non lo conosceremo in tempo.
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