Auto, armi, migranti: perché l’Europa è ostaggio della Turchia
L’Unione europea condanna l’invasione in Siria, ma non riesce a imporre un embargo unitario sulla vendita di armi. D’altronde i rapporti fra Ue ed Ankara sono profondi, e vanno dall’industria dell’auto al timore di un ricatto sui migranti di Erdogan
di Alberto Magnani
6' di lettura
Il 2 ottobre Volkswagen, il colosso tedesco dell’automotive, ha annunciato che avrebbe aperto la sua 123esima fabbrica nel mondo a Magnesia , il capoluogo della provincia omonima nella Turchia occidentale. Appena sette giorni dopo, il paese è tornato nelle cronache tedesche per altri motivi: l’invasione della Siria settentrionale, con un blitz contro le milizie curde voluto dal presidente Erdogan per sradicare il «corridoio del terrore» che si sarebbe creato sul confine meridionale del paese.
Volkswagen ha poi fatto marcia indietro , rinviando un investimento stimato nell’ordine dei 1,3 miliardi di euro. Il suo interesse per la Turchia potrebbe sembrare un esempio di cattivo tempismo. Non lo è, o almeno, non è un caso isolato. I rapporti fra Europa (in particolare Germania) e Turchia sono radicati e si espandono dai legami commerciali a quello che viene considerato il principale strumento di pressione nelle mani di Erdogan: i 6 miliardi di euro promessi dalla Ue alla Turchia per bloccare i flussi di migranti diretti verso il Vecchio Continente, secondo un accordo siglato nel 2016 e ritenuta una delle manovre più spregiudicate della scorsa legislatura europea.
Si tratta dello stesso “rubinetto” che Erdogan potrebbe sbloccare da un momento all’altro, paralizzando la capacità dei 28 paesi membri di intervenire in maniera unitaria contro l’aggressione inflitta ai contingenti e cittadini curdi abbandonati al proprio destino dal voltafaccia di Donald Trump. Al momento la Ue è riuscita a produrre solo una condanna formale dell'aggressione , salvo incappare nel veto di paesi come Ungheria e Bulgaria rispetto all'imposizione di un embargo completo sulla vendita di armi a Instabul.
Le partnership commerciali e il peso dell’automotive
Il primo legame che ipoteca i rapporti fra Europa e Turchia è quello economico. L’Ue e Ankara hanno siglato nel 1995 un accordo doganale che copre i beni industriali ma esclude quelli agricoli, i servizi e gli appalti pubblici. Si parla da anni di una «modernizzazione» dell’intesa, anche se tutto lascia intendere che l’ultima escalation possa complicare (o ritardare) la partita. Sul fronte puramente commerciale, secondo dati della Commissione europea , la bilancia commerciale fra Ankara e gli stati Ue è valsa 153,4 miliardi di euro nel 2018, con esportazioni di beni verso la Turchia per 77,3 miliardi di euro e importazioni per 76,1 miliardi di euro. La Turchia è il quinto partner commerciale per la Ue e riversa sul mercato comunitario il 50% delle sue vendite internazionali complessive. L’export europeo verso Ankara è dominato da macchinari, prodotti chimici e manufatti, mentre l’import dalla Turchia è spinto da macchinari e mezzi di trasporto.
L’incidenza della mobilità non meraviglia, considerando il peso giocato da un segmento che spiega diversi aspetti dell’interdipendenza fra Ue e Turchia: l’automotive. Nella seconda metà del XX secolo, per usare l’espressione del governo di Ankara, l’industria dell’auto turca si è evoluta da un «un sistema retto su partnership» a una «industria a tutti gli effetti, con abilità nel design e massima capacità produttiva». Tra 2000 e 2018, i costruttori hanno investito sul paese l’equivalentedi 15 miliardi di dollari Usa . La produzione di veicoli dei 13 player globali attivi in Turchia è lievitata dalle 374mila unità del 2002 agli 1,5 milioni del 2018, trasformando il paese nel 15esimo produttore automobilistico su scala globale e, appunto, il numero cinque in Europa.
I quattro paesi di destinazione principali per l’export complessivo dell’automotive di Ankara sono Germania, Francia, Spagna e Italia. Oltre a Volkswagen e al suo neostabilimento, destinato sulla carta a generare 5mila posti di lavoro, il paese ospita 175 centri di ricerca e sviluppo di marchi globlali delle quattro ruote ed è sede di centri di brand europei come l’italo-statunitense Fca, la tedesca Daimler e l’austriaca Anstalt für Verbrennungskraftmaschinen List (meglio nota come Avl, un produttore di sistemi di azionamento). Uno dei fiori nazionali all’occhiello è la Tofaş, collaborazione fra la Fca e il conglomerato industriale Koç Holding, con una capacità produttiva di 450mila vetture l’anno. Tra i modelli sfornati compaiono anche i modelli Fiat Tipo e Doblò (destinata anche al mercato statunitense), prodotte nello stabilimento Tofaş della città turca di Bursa. Recidere integralmente rapporti con la Turchia significherebbe congelare un avamposto commerciale e produttivo rilevante, in un periodo tutt’altro che fiorente per la filiera europea e internazionale dell’auto.
L’export delle armi
Un capitolo ancora più delicato è quello sulle armi, oggetto del curioso «quasi divieto» imposto dalla Ue. Gli stati membri non hanno stabilito un embargo a tutti gli effetti, ma si impegnano ad «avere posizioni nazionali forti a proposto delle loro politiche di esportazione di armi verso la Turchia». Tradotto: l’ideale sarebbe troncare i rapporti con la Turchia sul settore, ma nei fatti la decisione è affidata a iniziative bilaterali come quelle già annunciate da Germania, Francia e Italia. Il business delle armi non raggiunge le dimensioni di altri segmenti industriali, ma rappresenta comunque un volume di scambi notevole fra la Ue e Ankara.
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La sola Germania, secondo dati del ministero federaledell’Economia e dell’Energia riportati da Statista, ha esportato in Turchia l’equivalente di quasi 243 milioni di euro nel 2018 , una cifra che incide su un terzo circa dei 771 milioni di euro complessivi in export bellico (il secondo paese è l’Arabia Saudita con 159,8 milioni di euro). L’industria francese soffrirebbe fino a un certo punto, considerando che il paese ha incassato l’equivalente di 594,5 milioni di euro in 10 anni in ordini da Ankara: briciole, o quasi,rispetto ai 949 milioni di euro in ordini in arrivo dall’Arabia Saudita, pari a 11,3 miliardi di euro nell’arco di un decennio.
Il “sacrificio” nella vendita di armi avrebbe un impatto maggiore sull’Italia. A quanto emerge da una relazione presentata alla Camera dei deputati nell’aprile 2019 , la Turchia è il terzo paese di destinazione per l’export di armi italiani: 362 milioni di euro nel 2018 distribuiti in 70 autorizzazioni, dietro alle vendite da 1,9 miliardi di euro dirette in Qatar e da 682,9 milioni dirette in Pakistan. Oltrettutto l’esportazione di materiale bellico verso Ankara è cresciuto a ritmo costante nel quinquennio precedente, passando dagli 11,4 milioni di euro del 2013 alla cifra cumulata nel 2018.
Il ricatto dei migranti e gli equilibri con la Germania
Fin qui, però, la bilancia del rapporto pende decisamente a favore dell’Europa. La Turchia è un partner interessante, ma non vitale per il mercato Ue. Viceversa, l’economia turca subirebbe un urto pesantissimo dalla r ecisione dei legami con il Vecchio Continente, destinazione della metà delle sue esportazioni. I veri strumenti pressioni nelle mani di Erdogan riguardano la gestione dei flussi migratori e il consenso goduto dalla comunità di expat turchi radicati in diversi paesi europei, a partire dalla Germania. «Sul commercio la Turchia ha solo da perdere -commenta Guntram Wolff, direttore del think tank Bruegel - ma i suoi assi nella manica sono altri: il ruolo sulle migrazioni e la comunità turca in un paese come la Germania». Il primo nodo, quello sui migranti, è racchiuso nel timore che Erdogan venga meno agli accordi sottoscritti con l’Europa, spalancando le porte del Continente ai flussi intercettati dal suo paese: un’ipotesi realistica, visto è che esattamente quello che ha minacciato di fare. Se i leader europei si ostinano a chiamare «invasione» l’attacco alla Siria del Nord, ha detto il presidente turco, Ankara «aprirà i cancelli a 3,6 milioni di rifugiati» verso la Ue. L’intimidazione viene liquidata da alcuni come una sorta di boutade, ma le sue conseguenze hanno già lasciato il segno.
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Il paese Ue che si ritrova nella posizione più scomoda rispetto alle pretese di Erdogan è la Germania, legata ad Ankara in maniera anche più stretta rispetto alla media continentale. E qui arriviamo al secondo nodo, quello dell’interazione con la comunità turca nella Ue. Anche Berlino potrebbe godere di una posizione di vantaggio rispetto alla Turchia in chiave commerciale, visto che la sua bilancia è in positivo di circa 3 miliardi di euro fra 19,1 miliardi di euro in esportazioni e 16,3 miliardi di euro in importazioni registrate nel 2018. Ma il vincolo decisivo è appunto quello costituito dalla forte presenza turca nel paese, bacino che rappresenta la nazionalità straniera più rappresentata in Germania.
Le statistiche variano, ma secondo stime Destatis riferite al 2017 si contano almeno 2,7 milioni di cittadini «di origini turche»: una cifra sottostimata rispetto alla presenza effettiva di tutti gli abitanti con qualche legame verso Ankara sparsi nei 16 Lander del paese. I rapporti fra i due risalgono alla firma, nel 1961, di un accordo bilaterale fra la Turchia e l’allora Germania Ovest, finalizzato all’importazione nel paese di Gastarbeiter (lavoratori stranieri) in aziende bisognose di manodopera. Da allora il flusso si è mantenuto, confermando la centralità della Germania nelle traiettorie migratorie dei turchi.
Non è un caso se nel 2017 Erdogan aveva tentato, senza successo, di fare campagna in Germania per convincere il bacino di expat con diritto di voto a sostenere il referendum indetto sulla sua riforma costituzionale. La cancelliera Angela Merkel si oppose, scatenando le ire di Erdogan per il «sucidio politico» della sua omologa tedesca. Ora la sua minaccia di «spalancare le porte» ai richiedenti asilo inquieta una politica tedesca già scossa dalla crescita di forze populiste di ultradestra, capaci di macinare consensi sull’allarme per la «invasione dei migranti» e le responsabilità della linea di porte aperte scelta da Merkel per il 2015. L’anno dopo Erdogan ha accettato l’accordo per frenare i flussi. Tre anni dopo potrebbe stralciarlo, regolando i (suoi) conti.
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