manovra 2020

Auto aziendali e rimborsi chilometrici al test convenienza

Chi fa molte trasferte ottiene dai rimborsi parte del capitale per l’acquisto

di Maurizio Caprino e Luca De Stefani

(ANSA)

3' di lettura

Già dal 2013 la deducibilità e la detraibilità dei costi di acquisizione e manutenzione dell’auto aziendale avevano penalizzato questa, come emerse dalle stime pubblicate sul Sole 24 Ore del 31 luglio 2012 su una percorrenza di 40mila chilometri all’anno per lavoro per cinque anni (cosa che fa ipotizzare che al termine del periodo il valore residuo del mezzo sia zero): i rimborsi chilometrici non erano toccati dalla stretta e restarono integralmente deducibili e detraibili (come sono a tutt’oggi). Ma il dipendente ci avrebbe perso 500 euro, oltre alla possibilità di circolare su un’auto fornita dall’azienda, cosa gratificante per molti.

Ora lo stesso calcolo, su una vettura di costo analogo, dice che ha convenienza anche il dipendente. Anche senza contare che storicamente il rimborso chilometrico si presta ad abusi (del dipendente stesso e dell’azienda che volesse retribuirlo parzialmente in nero), anche adesso che si sono diffuse le scatole nere e non c’è più la tradizionale carta carburante.

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COSTI A CONFRONTO

(*) Fonte: Mise al 28 ottobre 2019; (**) Stima Aci del costi chilometrici per i rimborsi spese, max 20 cavalli fiscali; (***) 70%; (****) auto inerente, circolari 16 luglio 2009, n. 36/E e 22 luglio 2009, n. 39/E

COSTI A CONFRONTO

Le cifre in tabella sono riferite al caso in cui l’auto aziendale genera un reddito in natura. Non cambierebbe molto se il dipendente, per evitare di farsi tassare il reddito in natura, si facesse applicare una corrispondente trattenuta in busta paga, per rimborsare al datore di lavoro la quota di uso privato del mezzo (opzione prevista dal Tuir).

Certo, durante l’iter parlamentare la norma potrebbe essere addolcita o rinviata, rimettendo in discussione l’esito di questi calcoli: ci sono state dichiarazioni possibiliste anche di esponenti di governo.

Non solo. I calcoli si riferiscono all’ipotesi di un’auto che sia davvero utilizzata in larga prevalenza come bene strumentale: 40mila chilometri annui percorsi per lavoro sono tanti, molti di più rispetto a chi sfrutta la vettura aziendale come benefit. In questo caso, le trasferte di lavoro sono poche e i relativi rimborsi percepiti dal lavoratore sono molto inferiori. Quindi non contribuirebbero in misura significativa all’investimento per acquistare in proprio l’auto (le tariffe chilometriche Aci utilizzate per i rimborsi comprendono non solo i costi del carburante, ma anche la manutenzione e la svalutazione del mezzo nel tempo, quindi hanno anche lo scopo di ricostituire - in proporzione all’uso lavorativo - il capitale impiegato dal lavoratore per acquisire la vettura).

Inoltre, il costo per l’azienda riportato nella tabella si riferisce a un’ipotesi oggi non più così diffusa come in passato: l’acquisto del mezzo effettuato direttamente dall’azienda, che ne diventa proprietaria. Oggi prevalgono soluzioni di noleggio o di leasing, che possono garantire risparmi di gestione. Specie su manutenzione e costi del personale amministrativo.

Tutto questo non toglie che, in generale, l’indirizzo politico prevalente vuole limitare il numero di auto e il loro utilizzo anche nelle attività d’impresa. In questa direzione va, ad esempio, la risposta all’interpello 461/2019 data il 31 ottobre dall’agenzia delle Entrate a un’azienda che intendeva offrire ai dipendenti una piattaforma per organizzare il car pooling (uso condiviso dell’auto di un lavoratore, che trasporti anche suoi colleghi, dividendo con loro le spese del tragitto casa-lavoro). Secondo l’Agenzia, non genera reddito di lavoro in capo ai dipendenti che ufruiscono, i costi sostenuti per offrire il servizio sono deducibili per l’azienda (nei limiti del 5 per mille) e i passaggi di denaro tra il driver e i passeggeri a titolo di rimborso spese di viaggio non sono tassati ai fini Iva.

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