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Auto, il governo punta alla strada della «neutralità tecnologica»: ecco cosa vuol dire

Consentirebbe di non dover rinunciare alla leadership acquisita e contenere i costi della transizione

di Nicola Barone

Auto, Meloni: transizione ecologica ma senza creare disoccupati

3' di lettura

«Noi percorriamo la strada della neutralità tecnologica». Il tema è il destino della filiera dell’automotive nell’ambito del processo di transizione ecologica. E Giorgia Meloni, interpellata alla Camera, compendia in poche rapide parole l’approccio che è stato, è e sarà del governo. «Il nostro obiettivo è consegnare una terra più pulita alle nuove generazioni, ma senza devastare il nostro sistema produttivo senza creare nuovi disoccupati». Gli interessi in gioco sono molteplici, molto spesso non così evidenti.

Un’assicurazione contro l’imprevisto

«Per neutralità tecnologica si intende un approccio non discriminatorio alla regolazione dell’uso delle tecnologie, lasciando il mercato deciderne la combinazione ottimale», spiega Stefano da Empoli, economista, presidente dell’Istituto per la competitività. Dunque le istituzioni pubbliche non scelgono le tecnologie sulle quali puntare (di qui la “neutralità”) bensì gli obiettivi e la cornice generale di riferimento. «Questo approccio è estremamente logico rispetto ai processi di innovazione, i cui risultati sono per definizione altamente incerti. Tecnologie oggi potenzialmente promettenti potrebbero rivelarsi domani meno efficaci o più costose del previsto e all’opposto tecnologie attualmente sottovalutate svilupparsi più rapidamente di quanto atteso. Quindi, la neutralità tecnologica è un’assicurazione contro l’imprevisto, che è sempre dietro l’angolo nei processi innovativi. E in più ha il grande vantaggio di stimolare la concorrenza tra tecnologie alternative e dunque allarga il numero dei player in grado di competere nei singoli mercati».

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Rischio deindustrializzazione

Il punto, nella visione esplicitata a più riprese dalla premier, è non mettere in moto un processo di deindustrializzazione innescando un effetto paradosso. «È un fatto che la semplice incentivazione all’elettrico rischia di delocalizzare la produzione automobilistica in paesi extra Ue dove gli impianti vengono realizzati con processi inquinanti» e che si incorra in problemi come lo «smaltimento delle batterie» e l’estrazione di materiali necessari a produrre con sistemi inquinanti.

I vantaggi per l’Italia

«Il principio di neutralità tecnologica, che per molti decenni è stato alla base della regolazione europea del mercato interno, ha incominciato a perdere posizioni a Bruxelles parallelamente al ritorno di un ruolo più attivo dello Stato. Basato sull’importanza crescente delle catene di approvvigionamento e sul concetto di autonomia strategica e dunque sul ritorno di una politica industriale più attiva (che sceglie i vincenti, tra i quali anche le tecnologie)», dice ancora da Empoli. Nella sfera energetica e ambientale, la volontà di accelerare la transizione verso la neutralità climatica ha portato a una preferenza esplicita verso l’elettrificazione degli usi finali, basata su fonti rinnovabili. Tuttavia, secondo l’economista, «per un Paese come l’Italia, che ha puntato tra i primi sul gas naturale ed è molto presente nella filiera automotive basata sul motore endotermico, l’adesione a un principio di neutralità tecnologica le consentirebbe di non dover rinunciare alla leadership acquisita e contenere i costi della transizione, necessaria per trasformare integralmente il proprio sistema energetico e industriale. Inoltre disponiamo di eccellenze assolute su tecnologie come i biocarburanti, che potrebbero tenere in vita accanto alla mobilità elettrica quella attuale, in una prospettiva evidentemente evoluta.

Stati e aziende all’opera

In una linea storica il principio della neutralità tecnologica è stato rispettato per decenni dall’Europa e solo negli ultimi anni è stato crescentemente disatteso. Sui perché l’Istituto per la competitività ha stretto il focus in molte e puntuali analisi, nel tempo. «Dietro motivi senz’altro nobili (ad esempio la necessità di accelerare verso obiettivi climatici sempre più ambiziosi, rispetto ai quali occorre tuttavia ricordare come il contributo europeo sia ormai decisamente marginale, al di sotto del 10% delle emissioni globali), si nascondono naturalmente forti interessi da parte di Stati ed aziende», evidenzia da Empoli. «Il che è pienamente legittimo naturalmente, purché non si perda di vista l’interesse generale e la necessità di comporre esigenze diverse. E Paesi come l’Italia, che hanno interessi non necessariamente convergenti con il trend in atto, possano far valere le proprie ragioni».

Agire a livello Ue dai primi stadi

Per delle opportune contromisure c’è ancora spazio. «Possibilmente lavorando prima che il film sia girato, come fanno Stati membri più abili e attrezzati del nostro, e non quando siamo ormai alle scene finali. Dove il colpo di coda è ancora possibile ma diventa più difficile e costoso in termini reputazionali». Essenziale, seguendo il filo di questo ragionamento, è poter incidere nello stadio iniziale dei processi legislativi, possibilmente prima ancora che abbiano formalmente inizio attraverso una proposta della Commissione europea. «Quando si è invece alla battute finali del dibattito in Parlamento o nel Consiglio si rischia di arrivare troppo tardi, quando i buoi sono ormai usciti dalla stalla e ricondurli indietro diventa estremamente complicato ed oneroso. Per questo, oltre a salvare il salvabile, occorre già oggi attrezzarsi come sistema Paese in previsione delle scadenze del 2024, che porteranno al rinnovo delle istituzioni Ue, e dei nuovi equilibri che seguiranno».


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