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Aziende al bivio: come rispondere alla “great migration” professionale

Il coinvolgimento della Generazione Z sarà fondamentale per trovare soluzioni in grado frenare il continuo cambiamento del posto di lavoro

di Gianni Rusconi

(AFP)

4' di lettura

Solo nei primi dieci mesi del 2021, in Italia sono state rilevate 777mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40mila in più rispetto a due anni prima. E la Generazione Z si è distinta come la categoria che ha subito più delle altre le conseguenze della pandemia. Lo studio “Nuove Generazioni: Nuove Organizzazioni”, realizzato dalla società di consulenza BIP con gli esperti di OpenKnowledge, ha messo sotto la lente di ingrandimento le diverse facce delle “Great Migration” e ha delineato le possibili contromisure percorribili dalle organizzazioni.

Gli autori dello studio hanno innanzitutto spiegato la ragione di una diversa denominazione del fenomeno: la “Great Migration” va intesa infatti come evoluzione del concetto ormai noto della “Great Resignation”. Fra le righe della corsa alle grandi dimissioni, insomma, va considerata la propensione delle persone a cambiare occupazione per trovare un impiego più vicino alle proprie aspirazioni (e alle priorità nate nel periodo pandemico) piuttosto che quella dell’abbandono tout court del posto di lavoro e della conseguente uscita dal mercato.

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Ed è proprio in questa chiave di lettura che emerge chiaramente la necessità, per le aziende, di riconoscere i nuovi desideri e le nuove prospettive di sbocco professionale dei propri addetti. Numeri alla mano, l’onda della “grande migrazione” ha toccato in modo non uniforme le varie fasce di lavoratori e in ragione di questa evidenza comprendere i comportamenti degli zoomer, i nati tra il 1996 e il 2010 (i soggetti più colpiti dal fenomeno in questione), significa guadagnare un vantaggio strategico.

Per affrontare una sfida dagli sviluppi ancora non facilmente determinabili, la strada maestra suggerita dagli esperti è quella di affrontare il tema dell’incontro intergenerazionale in azienda. Anziché utilizzare cluster per raggruppare e dividere le persone in base alla loro età, costruendo strategie efficaci per un gruppo ma svantaggiose (se non dannose) per gli altri, il vero obiettivo a cui tendere è invece quello di generare uno scambio positivo tra le persone di generazioni diverse, valorizzando i punti di incontro possibili per sostenere la creazione di una esperienza coerente e condivisa.

“Il fenomeno - ha spiegato Rosario Sica, Ceo di OpenKnowledge - ha radici profonde e nasce dentro le modalità attraverso le quali abbiamo gestito per anni le aziende. Le organizzazioni devono essere più curiose e liberarsi dalle vecchie abitudini per fare spazio al nuovo: rispondere alla sfida della great migration significa prima di tutto favorire un’attitudine positiva al cambiamento, mettendo sempre le persone al centro di ogni iniziativa”.

Una convinzione, quella del manager, che nasce da un preciso assunto, certificato dai risultati dello studio. La Generazione Z è il cluster che sente più di ogni altro il senso di disaffezione verso un ambiente lavorativo, perché ha pagato a caro prezzo nel periodo pandemico l’ingresso nel mondo del lavoro (spesso da remoto) con la propria inesperienza, con la scarsa consapevolezza delle dinamiche operative dell’ufficio e (soprattutto) con l’impossibilità di avere quel contatto fisico con i colleghi e i team leader che in molti casi aiuta ad orientarsi e ad imparare un mestiere.

All’interno delle organizzazioni si è oggi arrivati a un momento di confronto tra generazioni diverse, ciascuna con attitudini, abilità e convinzioni specifiche riguardo ai modi di svolgere il proprio ruolo e la vita aziendale nel suo complesso. Da qui l’urgenza di costruire strategie coerenti per garantire una employee experience efficace e trasversale rispetto alle diverse età delle persone: ciascun gruppo, portatore di un set specifico di esigenze e aspettative, si trova a dover navigare in un contesto lavorativo mutato ed è compito delle organizzazioni supportare e sostenere i singoli nello svolgimento delle attività quotidiane.

Contrastare il fenomeno della “great migration”, insomma, è un compito a cui il management deve rispondere in prima persona, con un occhio di riguardo per i nativi digitali: come ha ribadito lo studio, sono proprio questi soggetti a poter portare nelle aziende una prospettiva disruptive e potenziale innovativo, un contributo che (se ben indirizzato) andrebbe a generare benefici sia in termini di competitività che a livello di processi interni. Il percorso da compiere è però lungo. E richiede un salto in avanti culturale.

“Parliamo spessissimo di smart working - ha osservato in proposito Sica - ma in realtà il lavoro non è ancora diventato smart: dobbiamo per prima cosa andare oltre il concetto della proprietà del dipendente, perché l’employee deve essere più autonomo e slegato dal concetto di possesso nel suo operare al fianco di un manager. La nuova forza lavoro mette a nudo i difetti del modello di impresa che si è stratificato negli ultimi 20 anni e oggi siamo arrivati all’ultima chiamata utile per creare un modello attrattivo per la Generazione Z”.

Da dove partire per non perdere l'ultimo treno? La ricetta di Sica ha molti ingredienti e si riflette nella consapevolezza di dare velocemente fiducia e spazio alle nuove generazioni di worker. Si va dall’ammettere gli errori commessi in passato all’attuare politiche di sostenibilità elevando questa componente a vero asset aziendale, dal valorizzare in modo concreto la responsabilità sociale all’anticipare temi di caring per mettere le persone nelle condizioni migliori per esprimere la propria professionalità. In estrema sintesi serve diversificare il modo di lavorare e il modo di pensare sia il lavoro, sia il concetto di spazio fisico, perché non tutti possono operare in azienda agli stessi ritmi e alle stesse velocità.

“Occorre coltivare la cultura dell’errore con coraggio - aggiunge infine Sica - e questo accade troppo poco spesso a livello organizzativo. E vanno inoltre fatte proprie nuove tendenze: le competenze si stanno trasformando verso una logica di problem solving e di trasversalità, la componente empatica è un fattore che attrae e valorizza i nuovi talenti, la comunicazione in azienda è un elemento fondamentale del nuovo modello di lavoro”.

Quanto impiegheranno le organizzazioni a cambiare faccia? La risposta non lascia molti dubbi: “Almeno un decennio, perché la pandemia ha catapultato tutti in un mondo nuovo e dobbiamo capire a fondo come farlo funzionare al meglio e in modo diverso rispetto al passato”.

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