Aziende al test del gender gap: aiuti a chi non discrimina
Alle aziende contributi previdenziali scontati dell’1%, fino a 50mila euro per azienda nel 2022 e punteggi più alti negli appalti pubblici
di Valentina Melis
5' di lettura
Contributi previdenziali scontati dell’1%, fino a 50mila euro per azienda nel 2022, punteggi maggiorati nella pertecipazione ad appalti pubblici, vantaggi reputazionali e più attrattività nei confronti dei lavoratori, anche in fase di selezione del nuovo personale. Sono questi i vantaggi essenziali collegati alla certificazione della parità di genere, che ora le imprese possono chiedere e ottenere.
Si tratta della certificazione, prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (nella missione 5, coesione e inclusione, politiche per il lavoro), per incentivare tutte le imprese ad adottare policy mirate a ridurre il gap di genere in tutte le aree più critiche: opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, gestione delle differenze di genere, tutela della maternità. Il tutto in un contesto che vede in Italia al lavoro una donne su due, e un gap di retribuzione fra donne e uomini, a livello europeo, del 16 per cento.
La cornice normativa
Il Pnrr ha destinato dieci milioni di euro alla creazione del Sistema nazionale di certificazione della parità di genere, prevedendo che nella fase sperimentale, fino al secondo trimestre del 2026, la certificazione sia agevolata per le imprese di medie, piccole e micro-dimensioni, e supportata da servizi di accompagnamento e assistenza.
La legge 162/2021 ha introdotto la certificazione nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006), prevedendo anche le misure premiali per le imprese che la otterranno (per il 2022 sono stati stanziati 50 milioni).
Infine, il Dpcm del 29 aprile 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 1° luglio, ha fissato i parametri in base ai quali le aziende potranno avere la certificazione. Si tratta dei parametri fissati dalla Prassi di riferimento Uni 125:2022, pubblicata il 16 marzo scorso. La Prassi fissa una serie di Kpi (key performance indicator, indicatori chiave di prestazione), suddivisi in sei aree, dalla governance alla equità remunerativa per genere (si veda la scheda in pagina). Ciascuna area ha un peso percentuale specifico nella valutazione dell’organizzazione aziendale, e a ciascun indicatore è associato un punteggio. Per avere la certificazione, l’azienda deve raggiungere uno score minimo di sintesi complessivo del 60 per cento, e la verifica si ripeterà con cadenza annuale.
Le micro-aziende (da 1 a 9 addetti) e le piccole (da 10 a 49 addetti) saranno monitorate solo in relazione ad alcuni obiettivi, con una differenziazione rispetto alle medie imprese (50-249 addetti) e alle grandi (250 addetti e oltre). Sono escluse dall’applicazione della Prassi Uni 125:2022 le partite Iva che non hanno dipendenti o addetti.
Come avere la certificazione
Accredia, l’ente italiano di accreditamento, ha già autorizzato tre società a rilasciare la certificazione della parità di genere: si tratta di Bureau Veritas Italia Spa, Dnv Business assurance Italy Srl e Rina Services Spa. A questi accreditamenti ne seguiranno altri nei prossimi mesi.
Il Dipartimento delle Pari opportunità sta lavorando intanto con Sogei per mettere a punto un database degli organismi accreditati e delle aziende che man mano otterranno la certificazione, che dovrà essere attivo dal 2023. Gli organismi accreditati per rilasciare la certificazione di parità potranno partecipare a un avviso pubblico ed entrare a far parte di questo elenco “ufficiale”. Questo step sarà importante perché le Pmi potranno essere supportate nei costi della certificazione. In pratica, come prevede il Pnrr, almeno in una prima fase, i costi della certificazione di parità dovrebbero essere addebitati (almeno fino a una certa soglia) dagli organismi certificatori iscritti in elenco non direttamente alle aziende ma allo Stato.
«Nella fase iniziale - spiega Emanuele Riva, direttore del dipartimento Certificazione e Ispezione di Accredia - è prevedibile che chiedano la certificazione di parità le aziende già pronte, cioè quelle che sono sicure di passare l’esame. Solo dopo - aggiunge - vedremo se ci sarà una capacità effettiva di confrontarsi con gli obbiettivi sfidanti posti da questo percorso».
Per Sara Vitali, funzionario tecnico dello stesso dipartimento di Accredia, «sarà importante per le aziende individuare le aree sulle quali concentrare i propri investimenti per superare il gender gap. Se l’azienda raggiunge lo score minimo del 60% per la certificazione di parità, è auspicabile che nella verifica dell’anno successivo registri un miglioramento».
Il percorso delle aziende
Assistere le aziende nel percorso verso l’acquisizione della certificazione della parità di genere sarà una sfida anche per i loro consulenti, a partire dai legali. «Si amplia ulteriormente lo spazio per la consulenza stragiudiziale - spiega l’avvocata giuslavorista Giulietta Bergamaschi, managing partner dello studio Lexellent - perché il percorso che porta le aziende alla certificazione della parità di genere è essenzialmente di tipo organizzativo. Le imprese hanno l’opportunità di fare una verifica per comprendere il proprio livello di engagement sui temi dell’inclusione e della parità. Il vero plus di questo percorso è entrare nell’organizzazione aziendale e individuare le aree di miglioramento».
Peraltro, le modifiche introdotte dalla legge 162/2021 al Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, stabiliscono già l’obbligo, per le aziende con almeno 50 dipendenti (e la facoltà, per chi è sotto questa soglia), di redigere un rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, indicando la retribuzione mensile del personale maschile e femminile per categoria e livello, la retribuzione annua, i dettagli delle componenti accessorie della retribuzione, sempre per uomini e donne.
Gli indicatori per ottenere la certificazione di parità
1) Cultura e strategia
Gli indicatori di quest’area sono sette, a partire dalla formalizzazione di un piano strategico per sostenere lo sviluppo di un ambiente di lavoro inclusivo. Tra gli altri, la presenza di una comunicazione interna che promuova comportamenti in grado di garantire un ambiente rispettoso della parità di genere e la realizzazione di interventi formativi a tutti i livelli, compresi i vertici, sulla differenza di genere.
2) Governance
Fra i cinque indicatori di quest’area: la definizione nella governance dell’azienda di un comitato, unità o funzione per gestire e monitorare i temi legati all’inclusione e alla parità di genere; la presenza di un budget per attività a supporto dell’inclusione; la definizione di obiettivi legati alla parità di genere e la loro attribuzione al management, soggetto a valutazione su di essi.
3) Processi hr
Tra i sei indicatori di quest’area, la definizione di processi di gestione e sviluppo delle risorse umane a favore dell’inclusione; la presenza di meccanismi di protezione del posto di lavoro e di garanzia dello stesso livello retributivo nel post-maternità, la presenza di referenti e prassi aziendali a tutela dell’ambiente di lavoro, con riferimento e episodi di molestie o mobbing.
4) Opportunità di crescita e inclusione delle donne
Tra i sette indicatori, c’è la valutazione della percentuale di donne nell’organizzazione rispetto all’organico totale (per aziende fino a 49 addetti); della quota di donne con la qualifica di dirigente, della quota di donne responsabili di una o più unità organizzative; della quota di donne nella prima linea di riporto al vertice, della quota di donne con delega su un budget di spesa.
5) Equità remunerativa per genere
Tre indicatori: percentuale di differenza retributiva per lo stesso livello di inquadramento per genere e a parità di competenze; percentuale di promozioni di donne su base annua; percentuale di donne con remunerazione variabile.
6) Tutela genitorialità
Tra i cinque indicatori, la presenza servizi dedicati al rientro post maternità-paternità; presenza di policy, oltre il Ccnl di riferimento, dedicate alla tutela della maternità-paternità e servizi per favorire la conciliazione dei tempi di vita personale e lavorativa; rapporto tra il numero degli uomini beneficiari effettivi di congedi di paternità sul totale dei beneficiari potenziali.
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