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Baby influencer, in Italia ancora nessuna norma specifica

La regolamentazione dei vari aspetti è lasciata ai patti tra le parti, vale a dire i contratti tra i brand e i genitori, che si rifanno alle disposizioni generali

di Marta Casadei e Valentina Maglione

 Sono i genitori influencer a coinvolgere i figli piccoli nella vita online

4' di lettura

Bambini sorridenti vestiti a festa (con il tag al brand e l’hashtag #adv o #gifted) che animano stories, post e reel su Instagram oppure video su TikTok, protagonisti sugli account dei genitori influencer. Ma anche vere e proprie baby star dei social che hanno già un account personale a uno, quattro, sei anni. Con decine (a volte centinaia) di immagini che raccontano una vita patinata, a casa o in vacanza, in resort a cinque stelle dove soggiornano – ça va sans dire – in compagnia di mamma e papà. Il tutto suggellato, in alcuni casi, dalla spunta blu che garantisce l’autenticità del profilo, nonostante (in teoria) l’età necessaria per iscriversi alla piattaforma social sia decisamente più alta (16 anni secondo il regolamento Ue sulla privacy, Gdpr, ma abbassata a 14 anni in Italia con le norme che lo hanno attuato).

Ancora nessuna tutela specifica per i minori

La presenza dei baby influencer sui social media è un mosaico le cui tessere sono ciascuna un caso a sé, una famiglia a sé. In comune hanno il fatto di portare guadagni: denaro per le sponsorizzazioni o prodotti o soggiorni premio. Situazioni diverse in cui i minori andrebbero tutelati su più fronti: intanto quello lavorativo e quello economico; e poi ci sono gli aspetti legati alla privacy, con il diritto all’immagine e alla reputazione. Un tema, quest’ultimo, che riguarda anche la situazione affine dello sharenting, cioè la condivisione social, costante ma senza fini di profitto, da parte dei genitori di contenuti relativi ai figli.

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In Italia – a oggi – non esistono norme specifiche. La regolamentazione dei vari aspetti è lasciata ai patti tra le parti, vale a dire i contratti tra i brand e i genitori, che si rifanno alle disposizioni generali, a partire da quelle in materia di uso dell’immagine: per i minori occorre acquisire il consenso di entrambi i genitori (con la coda di controversie nei casi di contrasto). E bisogna considerare anche le norme sulla responsabilità genitoriale: i genitori hanno un ruolo di educazione e di cura verso i figli e, se lo violano, deve intervenire il giudice. Accade spesso che il coinvolgimento dei figli minori nei post non conti alcuna menzione nei contratti che regolano le prestazioni concordate tra marchi e influencer che li promuovono, rendendo la situazione ancora più opaca.

Le iniziative delle istituzioni

Questi aspetti sono stati esaminati al tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social network. Voluto dalla ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha concluso i suoi lavori con una relazione, presentata un anno fa, che ha suggerito anche alcuni interventi normativi per scoraggiare lo sfruttamento online dell’immagine dei figli da parte dei genitori, e di co-regolamentazione, con il coinvolgimento delle piattaforme. Indicazioni per ora rimaste sulla carta. Dal ministero, oggi guidato da Carlo Nordio, non sono partite altre iniziative. Mentre il Garante privacy e Agcom hanno istituito un tavolo per lavorare a un Codice di condotta che conduca le piattaforme ad adottare sistemi di verifica dell’età.

«L’interesse supremo deve essere la tutela del minore - spiega Maria Francesca Quattrone, avvocato e fondatrice dello studio Dike Legal – e per questo motivo è importante che sia il brand sia le agenzie intermediarie prevedano l’inserimento nel contratto clausole cautelative. Per esempio i post che coinvolgono il bambino, anche se pubblicati sull’account del genitore, devono avere contenuti adeguati. Per tutelare i baby influencer o i figli di coloro che fanno questo lavoro si può fare riferimento a un patchwork di normative diverse, ma sarebbe auspicabile una legge ad hoc ».

Vuoto normativo

«C’è un vuoto normativo – ammette Paolo Lazzarino, socio dello studio ADVANT Nctm –, in parte colmato dalla legge sul lavoro minorile, che lo vieta sotto i 16 anni, ma con una deroga, che si potrebbe applicare ai baby influencer, per gli impieghi culturali, artistici, sportivi, pubblicitari o nel mondo dello spettacolo. Questa legge richiede l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, a verifica che le attività non pregiudichino la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo del minore e la frequenza a scuola. Si potrebbe ipotizzare che il visto dell’Itl si possa estendere ai contratti pubblicitari che coinvolgono prestazioni non occasionali di baby artisti, ma è una prassi non testata».

«Occorre premere per far applicare gli istituti esistenti al nuovo fenomeno – incalza Elia Barbujani, fondatore dello studio legale Slb consulting –. Le situazioni non regolamentate possono sfociare in controversie: tra i genitori, dato che i giudici hanno riconosciuto che pubblicare sui social immagini di minori, diffondendole tra un numero indeterminato di persone, è un’attività potenzialmente pericolosa; e del figlio, che, una volta cresciuto, può rivendicare il diritto alla privacy e all’oblio, chiedendo di cancellare le immagini».

Il modello francese

Per trovare norme dedicate ai piccoli influencer basta attraversare le Alpi: in Francia già dal 2020 esiste una legge che punta a tutelare i baby professionisti regolando le ore di lavoro sui social, prevedendo una sorta di congelamento dei guadagni e la possibilità, se lo richiedano in futuro, di esercitare il diritto all’oblio. Sempre a Parigi, è passata in prima lettura all’Assemblèe Nationale un’altra legge che regola lo sharenting.

Su quest’ultimo fronte, in Italia il Garante privacy ha diffuso alcuni suggerimenti ai genitori per limitare la condivisione online di contenuti sui figli: tra questi, rendere irriconoscibile il volto con pixel o emoticon, restringere le impostazioni di visibilità e non creare account dedicati ai minori. Ma sono consigli, non prescrizioni.

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