Baggio, l’artista del pallone che ha incantato tutta Italia
Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi
di Dario Ceccarelli
10' di lettura
Anche se fa di tutto per non esserlo, è un simbolo aggregante. Un angolo caldo del cuore. Un frammento prezioso della nostra memoria. Ancora adesso, dopo quasi vent’anni dal suo ritiro, tutti lo conoscono. Vecchi e giovani, uomini e donne, tifosi e non tifosi.
In occasione della finale dei mondiali in Qatar, in tribuna tra le star del calcio, il presidente Macron gli è andato vicino e lo ha abbracciato come fosse un beniamino della nazionale francese. Poco distante c’erano anche Ibrahimovic, Rummenigge e tanti altri famosi campioni di ogni età, però Macron non ha avuto dubbi. Che cosa gli abbia detto non lo sappiamo. Ma in quell’attimo, perfino Macron, potente leader mondiale, sembrava un ragazzino felice che riceve un autografo dal suo calciatore preferito.
Raccontare la storia di Roberto Baggio, nato a Caldogno, alle porte di Vicenza il 18 febbraio 1967, è come raccontare una fiaba a un bambino che crede ancora ai buoni sentimenti. Che crede che alla fine vincano sempre i migliori, i più bravi, i più coraggiosi. E che i cattivi e gli invidiosi finiscano male. Sconfitti e scacciati mentre i nostri eroi fan festa.
In realtà non va sempre a finire così, anzi. Però ogni tanto qualche eccezione c’è. E la storia di Roberto Baggio, campione fortissimo e fragilissimo insieme, lo conferma. Perché è una specie di antidepressivo senza effetti collaterali. Una potente iniezione di autostima per i momenti peggiori. Quando pensi che tutto ti sbatta contro, e sia meglio chiudersi in un angolo, ecco che Baggio, talento straordinario ma subito colpito da pesantissimi infortuni, ti ricorda che c’è una via d’uscita. E che puoi trovarla dentro di te.
Baggio l’ha trovata attraverso la fede, attraverso il buddhismo. «Ti insegna a cercare la forza latente in ognuno di noi», spiega quando racconta del suo primo incontro con questa pratica religiosa. E aggiunge: «Ognuno cerca la sua strada. Quella del dolore e della fatica, se reagisci, ti fa comunque crescere e trovare una soluzione, una luce per uscire dal buio».
A proposito di luce: la prima fortuna di Roberto Baggio, detto anche “Divin Codino”, è di nascere in una bella famiglia, affettuosa e numerosa. Soldi pochi, fratelli tanti, otto per la precisione. Una famiglia molto sportiva dove papà Florindo ama il calcio, il ciclismo. La mamma, Matilde, è sportiva per forza di cose. Star dietro a tutta quella banda richiede infatti una forma fisica straordinaria. Altro che dieta e palestra! La palestra ce l’ha in casa. E chi la fa correre di più è proprio quel diavolo di un ragazzino con la fissa della palla che calcia nel corridoio di casa spaccando tutto. Del resto si chiama Roberto in onore di Roberto Boninsegna e Roberto Bottega, i due idoli calcistici di papà Florindo. Con queste premesse, non c’è da stupirsi che Roberto Baggio sia diventato Baggio.
Fenomeno già da piccolo
Era un fenomeno già da bambino. Praticamente viveva al campetto di calcio. «Chi non si presenta non giocherà mai più», c’era scritto all’ingresso. E Roberto, stimolato dall’allenatore, il fornaio di Caldogno che si chiama Zenere, diventa un’attrazione locale. Tanto che quando passa alle giovanili del Vicenza fanno la fila per andare a vederlo. “Tu sei il mio Zico” gli dice Giulio Savoini, uno dei suoi maestri.
Una carriera fulminante. A 16 anni va già in panchina in C1. Poi diventa titolare in un crescendo di interesse degli operatori calcistici. Segna e fa segnare, diverte, fa dribbling da brasiliano. Un predestinato che viene acquistato per due miliardi e 700 milioni dalla Fiorentina, più lesta della Juventus di Boniperti. Baggio ha 18 anni. Tutto sembra andare per il meglio. Ma il destino di Baggio non è una linea retta. E se ne accorge il 3 maggio 1985, due giorni dopo la firma del contratto, quando il mondo gli crolla addosso giocando contro il Rimini di Arrigo Sacchi, un allenatore che ritroverà ancora nella sua carriera.
Roberto realizza il gol del Vicenza ma poi, inseguendo in scivolata un avversario, il ginocchio destro va in pezzi: rottura del crociato e del menisco. Un trauma pesantissimo, che in quei tempi, significa quasi sempre appendere le scarpe al chiodo. Baggio viene operato in Francia dal professor Bousquet, un luminare dello sport. E qui comincia l’altra vita parallela del campione Roberto Baggio. Quella che per quasi vent’anni lo costringerà a misurarsi col dolore con la paura di non farcela. Una corsa a ostacoli che lo accompagnerà, come su un otto volante, per tutta la sua carriera che terminerà il 16 maggio 2004 allo stadio di San Siro con la maglia del Brescia contro il Milan.
Ma in mezzo gli capiterà di tutto. Due scudetti (Juventus 1995 e Milan 1996) una Coppa Uefa con la Juve (1993) un Pallone d’oro e uno di Platino (1993), 205 reti in campionato e 27 in nazionale.
In più, se vogliamo fargli del male, si può ricordare che nell’estate del 1994 è stato vicecampione del Mondo dopo una finale maledetta contro il Brasile in cui sbaglierà un rigore che gli rimarrà per sempre inciso come uno sfregio. «Ancora adesso non posso dimenticare. Era il mio sogno vincere un mondiale con la maglia azzurra. Uscire da quell’incubo è stata dura. Se potessi cancellare un’immagine della mia vita sportiva, cancellerei quella. La cosa strana è che io non ho mai tirato un rigore sopra la traversa. Magari colpisco il palo, magari lo para il portiere, ma mai così alto. Naturalmente, sbagliando l’ultimo rigore, sono diventato l’agnello sacrificale cancellando quelli sbagliati dai miei compagni. Aggiungo però che senza di me, a quella finale, non saremmo mai arrivati».
Sono diversi i capitoli della vita calcistica di Baggio, tra i club e la nazionale, che inevitabilmente si sovrappongono a quelli del calcio degli anni Novanta. Un calcio che diventa sempre più invasivo e televisivo. E dai costi sempre più elevati. Non è ancora il calcio degli emiri di oggi, dominato dai procuratori e dalle plusvalenze, ma è qualcosa che sta cambiando molto velocemente. In dieci anni, dopo il Mondiale vinto dagli azzurri nel 1982, e con l’arrivo dei big stranieri più famosi (Platini, Maradona, Zico, Rummenigge, Gullit, Van Basten) il nostro campionato diventa il laboratorio del futuro. Con l’ingresso di Silvio Berlusconi al Milan e Massimo Moratti poi all’inter, tramontano i vecchi patron da Processo del Lunedì ed emergono figure più dinamiche al centro della politica e degli affari. Per gli Agnelli la Juventus era soprattutto una passione familiare, un bel giocattolo della domenica. Ora è il contrario. Il calcio è un volano per fare affari, cucire relazioni, accedere ai crediti e alle poltrone che contano. I vecchi mecenati lasciano spazio ai rampanti dalle fortune non sempre cristalline: Calisto Tanzi al Parma, Sergio Cragnotti alla Lazio, Paolo Mantovani alla Sampdoria, Mario Cecchi Gori alla Fiorentina. Un mondo rutilante dove i crack sono però ancora lontani e tutto sembra a portato di mano.
La carriera di Roberto Baggio, fermo quasi due anni per un secondo infortunio ancora allo stesso ginocchio, s’inserisce in questo mondo che ha poco tempo per aspettare chi rimane indietro. Ma nel suo caso i Pontello, famiglia di costruttori edili proprietari della Fiorentina, fanno una eccezione. Sia per la cifra investita, sia perché quel ragazzo vicentino è davvero un talento fuori dal comune. Nel triennio dal 1987 al ’90 Baggio conquista il cuore dei tifosi a suon di gol e di assist. Vederlo giocare è un piacere per gli occhi ma il percorso della rinascita è un calvario durissimo. «Dopo la prima operazione ho sofferto come un cane. Neppure gli antidolorifici lenivano il dolore. Duecentoventi punti e un ginocchio ad orologeria. Il mio dribbling migliore è stato quello di trovare ancora dentro di me la voglia di divertirsi. Tutta la mia carriera l’ho giocata con una gamba e mezzo convivendo con il dolore».
Eppure Baggio conquista tutti. Va in Nazionale, diventerà protagonista a Italia ’90 nella squadra allestita da di Azeglio Vicini (indimenticabile il suo funambolico gol contro la Cecoslovacchia), viene acquistato poco prima dei Mondiali dalla Juventus, da tempo d’accordo coi Pontello. Una cessione che scatena la rabbia dei tifosi viola con scene da guerriglia urbana. Il figliol prodigo diventa Giuda. «Andando alla Juventus ho guadagnato il triplo che a Firenze, ma non me n’è mai fregato nulla. Io stavo bene a Firenze, ma i Pontello ormai volevano vendere tutto. Finché ho potuto ho lottato contro i mulini a vento, ma poi mi sono stancato. Mia moglie Andreina era incinta, c’era un mondiale alle porte chi me lo faceva di lottare da solo contro il sistema?».
E qui, finiti gli anni della spensieratezza, comincia un’ altro percorso, quello con il calcio dei potenti club metropolitani (la Juventus dal 1990 al '95, il Milan dal ’95 al ’97, l’intermezzo con il Bologna nel 97-98 e il biennio con l’Inter dal 1998 al 2000). In questi dieci anni Baggio oltre che a convivere con il dolore e il timore di nuovi infortuni, deve convivere con un mondo sempre più dominato dal business e dal risultato, che non fa sconti a nessuno. In particolare se ti chiami Baggio, e sei un talento che poco si uniforma alle logiche tattiche di una nuova generazione di allenatori cresciuta col mantra degli schemi e del collettivo.
Baggio, pezzo pregiato e amatissimo, da questi tecnici viene spesso considerato più un problema che una soluzione. Troppa personalità. Una personalità che li disturba, che li oscura. Un suo dribbling, un suo gol scatena i giornali e le tv. Un beniamino che però ha un difetto: è fragile. E da questa sua vulnerabilità Roberto dovrà difendersi diventando fortissimo nel carattere.
I contrasti con Lippi
«Chiariamo: Non sono stato in guerra con tutti. Alla Juve, prima con Maifredi e poi con Trapattoni, le cose sono andate bene. L’unico vero problema, di quel periodo, era il Milan, che era fortissimo. E non riuscivamo a superarlo. A Torino sono stato bene, anche se non posso dire d’averla veramente amata. Lo stesso Avvocato, Gianni Agnelli, era gentile. Ovvio, quando mi ha chiamato “Coniglio Bagnato” non mi ha fatto molto piacere, ma credo volesse darmi una scossa, aiutarmi. Perfino con Lippi le cose sono andate quasi lisce. I problemi sono venuti dopo quando l’ho incontrato all’Inter. Dico la verità: non ho grossi rancori con nessuno. Rispetto Sacchi, Ulivieri e anche quelli che mi hanno messo i bastoni tra le ruote, coscienti o no. Ma Lippi fa storia a sé: all’inter arrivò nel 1999 dopo un anno tormentassimo avvelenato dagli esoneri di Simoni, Lucescu, Castellini ed Hodgson. Già al primo incontro mi chiese di fargli i nomi dei giocatori che all’Inter avevano remato contro… In pratica mi chiese di fare la spia… cosa che naturalmente non feci. Poi durante l’anno ha fatto di tutto per non farmi giocare. Stavo sempre in panchina. Dovevamo mangiare quello che voleva lui. Mi tolse anche il peperoncino. Una volta in allenamento ho fatto un bel lancio a Vieri che poi ha segnato. Bobo mi ha ringraziato facendomi un applauso. Una cosa normale tra compagni. Lippi ha reagito come una furia dicendo che eravamo lì per lavorare, non per farci i complimenti. Sono rimasti tutti di sasso. Poi durante il campionato ha continuato a provocarmi dicendomi che avrei fatto meglio ad andar via. Lo ammetto: sono rimasto per non dargliela vinta, per orgoglio. Pensate che a Verona, in uno spareggio di Champions League con il Parma, Lippi fu costretto a farmi entrare perché aveva gli uomini contati. Prima ho fatto l’assist per Jugovic, poi ha segnato il 2-1. Lippi mi fece i complimenti, ma ormai era troppo tardi. Era andato troppo oltre».
Racconti urticanti, quelli del vicentino, che si possono leggere nella sua autobiografia (“Roberto Baggio, Una porta nel cielo”) e che danno uno spaccato crudele di un mondo che spesso vive di apparenze o di polemiche futili.
Il periodo più felice di Baggio, oltre alla parentesi col Bologna, è stato quello col Brescia, dal 2000 fino al 2004, quando poi lascerà il calcio. È una sua seconda giovinezza, che onorerà con 45 reti in 95 gare. «Dopo l’Inter cercavo una squadra non troppo lontana che mi permettesse di non perdere il contatto con la Nazionale. Avrei potuto andare in Giappone, per una cifra pazzesca, ma l’invito di Carletto Mazzone, un allenatore che purtroppo ho incontrato solo a fine carriera, mi convinse subito. Un uomo unico, schietto, senza complessi, che mi ha fatto riscoprire il piacere di giocare, come quando ero ragazzo. Questi sono gli allenatori bravi, altro che i santoni degli schemi».
Quattro anni straordinari, quelli col Brescia, in cui Baggio diventa leader assoluto, uomo squadra che non solo tira le punizioni e fa gol da cineteca, ma rifinisce, tampona, torna in difesa, fa il capitano. «A Brescia sono definitivamente maturato, grazie alla fiducia e al clima grande collaborazione che si è creato».
L’unico neo, nel 2002, è la mancata convocazione ai Mondiali in Giappone con la nazionale di Trapattoni. Purtroppo per un nuovo infortunio, questa volta al ginocchio sinistro. Baggio fa di tutto per recuperare. Dopo 76 giorni, un record, è già pronto per giocare. Ma Trapattoni non lo chiama. Una amara delusione che Roberto, questa volta, si mette alle spalle andando in vacanza dove sta bene, in Argentina, la seconda terra del suo cuore.
Per conoscere bene Baggio bisogna capire anche sua passione per la natura, per la caccia che per lui vuol dire di vagare in terre quasi deserte e inesplorate, tra spazi liberi e selvaggi. «Ho una casa di cui sono fierissimo, tra Buenos Aires e la Pampa, per nulla sfarzosa, in una zona fuori dal mondo. Mi addormento in salotto, col fuoco acceso e il piacere di quel calore che alimento prendendo tronchi di eucalipto anche nella notte».
È un Baggio che non ti aspetti, lontano davvero mille miglia dal mondo che conosciamo e dal calcio che conosciamo. Un Baggio cui brillano gli occhi quando parli della sua famiglia e dei suoi figli Valentina e Mattia. Oppure dei suoi amici storici, il manager Vittorio Petrone, Peter e Chelo, con cui condivide tutto, compreso un certo gusto per gli scherzi, alcuni a volte feroci come nel film “Amici miei”.
«Spesso a noi calciatori, alla fine della carriera, chiedono che cosa faremo dopo… Io rispondo: trovare una passione, anche la più semplice. Io sono felice così, in mezzo alla natura, a far lavori con gli amici, a sudare. Molti mi hanno anche chiesto di portare la mia esperienza nel calcio... Ci ho provato, ma quando mi hanno dato un incarico in Federazione, non mi sono sentito a mio agio. Ho provato, ma alla sera non tornavo a casa contento. E quando uno non è contento è meglio che lasci perdere…».
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