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Banche, cresce il rischio energia. Moody’s: Italia e Germania più «vulnerabili»

Solo verso le utilities l’esposizione ha superato oltre 350 miliardi di euro, situazione ancora sotto controllo per le autorità di vigilanza ma c’è il timore che i crediti deteriorati tornino ad aumentare

di Sissi Bellomo

3' di lettura

La crisi energetica non rappresenta ancora un pericolo per la stabilità finanziaria, agli occhi delle autorità di vigilanza. Ma per le banche europee comincia ad emergere qualche segnale di rischio, che invita ad alzare la guardia in un contesto come quello attuale, che presenta molteplici sfide: dalle tensioni geopolitiche al rialzo dei tassi d’interesse, al progressivo indebolimento del quadro macro economico, che potrebbe sfociare in una recessione.

L’ultimo a suonare un campanello d’allarme è stato il presidente del Supervisory board della Bce, Andrea Enria, che lunedì 7 di fronte all’Eurogruppo ha richiamato l’attenzione su un possibile «deterioramento più pronunciato della qualità degli asset» e su una «crescita degli Npl» (Non performing loans o crediti deteriorati).

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Enria ha dato qualche cifra, emersa da «un’indagine approfondita» sulle banche europee vigilate: tra crediti e derivati l’esposizione complessiva verso i maggiori trader di materie prime energetiche ammonta a circa 70 miliardi di euro, mentre i prestiti alle utilities «sono aumentati» fino a superare 350 miliardi di euro a giugno 2022, il 5,5% dei totale dei crediti corporate.

La quota di per sè non è enorme. Ma c’è stata un’ulteriore crescita rispetto a quanto aveva segnalato la European Banking Authority (Eba), che per marzo la dava al 5,3%.

Un allarme l’ha lanciato di recente anche Moody’s, facendo i nomi di alcune banche europee che ritiene particolarmente «vulnerabili», di cui tre italiane: Banco Bpm, Intesa Sanpaolo e Unicredit.

«Ci aspettiamo che i crediti problematici tornino ad aumentare», si legge nel report dell’agenzia di rating, soprattutto se al caro bollette si aggiungeranno misure di razionamento del gas durante l’inverno: una situazione in cui le imprese – soprattutto quelle di dimensioni minori – potrebbero incontrare crescenti difficoltà ad onorare le scadenze sui debiti.

Il tallone d’Achille per le banche tricolori è la forte esposizione al settore manifatturiero, ma sono ritenute «vulnerabili» anche le banche tedesche (con rischi concentrati soprattutto sui crediti verso le utilities, solo in parte attenuati dalle misure di sostegno dello Stato) , quelle austriache e quelle dell’Europa centro orientale, soprattutto in Ungheria, Repubblica ceca e Slovenia.

Moody’s evidenzia che alla fine di giugno Banco Bpm aveva un’esposizione verso imprese manifatturiere di 22,1 miliardi di euro (pari al 234% del capitale Cet1) e verso il settore energy per 1,2 miliardi. Per Intesa Sanpaolo l’esposizione era rispettivamente di 65,5 miliardi (134% Cet1) e di 10,5 miliardi, per UniCredit di 60,1 miliardi (114% Cet1) e di 9,7 miliardi.

In Germania il faro è su Commerzbank, BayernLB, Helaba e Lbbw, mentre in l’Austria è su Raiffeisen Bank International (Rbi) e Raiffeisenlandesbank Oberoesterreich (Rlb).

Le autorità di vigilanza, a differenza di Moody’s, non citano espressamente nessuna banca. Oltre alle cifre citate da Enria, a fare un quadro della situazione aveva contribuito l’Eba in un rapporto sollecitato dalla Commissione Ue e pubblicato a fine settembre, in cui in sostanza rassicurava sul fatto che il rischio energia per le banche stava crescendo ma rimaneva sotto controllo.

L’Autorità bancaria europea riferiva di prestiti bancari a società energetiche per 320 miliardi di euro a marzo (in crescita di quasi 50 miliardi rispetto a giugno 2021). Alla stessa data gli istituti del Vecchio continente avevano inoltre derivati su commodity per 50 miliardi, «più che raddoppiati rispetto al secondo trimestre 2021».

La stessa Eba stimava un ulteriore aumento del 10% tra marzo e giugno, in base a dati preliminari. Ma al tempo stesso metteva in evidenza che alla fine del primo trimestre i derivati su materie prime (per il 40% energetiche) pesavano solo per il 3,5% dell’esposizione totale a derivati delle banche ed erano equivalenti a «meno dell0 0,2%» degli asset.

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