Banche e imprese, la manovra del 1931 e il cordone da recidere
di Valerio Castronovo
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Novant’anni fa, nel 1931, vennero compiuto i primi passi di una manovra finanziaria che sarebbe poi valsa a porre le premesse necessarie a salvare il salvabile del nostro sistema economico. «Tutta l’organizzazione creditizia – ha scritto Felice Guarnieri, che a quel tempo aveva sotto gli occhi i dati in possesso dalla Confindustria – risultava gravemente ammalata e minacciata di franare. Le banche si trovavano immobilizzate in operazioni di credito e in partecipazioni dalle quali non potevano ritirarsi, se non al prezzo di grosse perdite che contabilizzate in bilancio avrebbero messo in luce situazioni fallimentari». I depositi dei principali istituti di credito erano già scesi di 16 punti fra il 1930 e il 1931 e la situazione ormai intollerabile in cui versavano aveva costretto la banca commerciale e il credito italiano a trasferire a due holding di smobilizzo (Sofindit e Sfi) le proprie partecipazioni industriali, e a chiudere i canali di finanziamento alle imprese. Ciò che a sua volta aveva reso più precarie di quanto già non fossero le condizioni di alcune grandi imprese, legate da tempo alle banche, e gettato allo sbaraglio una massa di piccole e medie aziende che attingevano al credito bancario.
Di fatto, nel 1932 su un totale di depositi e di conti correnti pari a 4,5 miliardi di lire di allora, gli immobilizzi industriali delle banche ammontavano a ben 12 miliardi di lire. Nel frattempo, l’indice della produzione dell’industria manifatturiera era sceso da 99 a 77. Solo in parte la crescente esposizione delle banche e il finanziamento industriale andavano addebitati alle conseguenze della manovra deflativa attuata tra il 1926 e il 1927 che pur aveva finito per allontanare i risparmiatori dagli impieghi azionari, dirottandoli verso i titoli di Stato a reddito fisso. Fino ad allora, bene o male, i legami tra banca e industria erano sopravvissuti sia all’estromissione nel primo dopoguerra della finanza tedesca che ne aveva stretto i primi nodi, sia al crollo della Banca italiana di sconto colpita a morte dal dissesto dell’Ansaldo e di altre imprese. La stabilizzazione della lira aveva accresciuto la carenza di liquidità delle grandi banche, ma era stata la caduta dei valori industriali successiva al «giovedì nero» americano dell’ottobre 1929 a ridurre con le spalle al muro il sistema creditizio. Le condizioni sempre più precarie di numerose aziende minacciavano ormai di travolgere i principali istituti di credito e di fare terra bruciata di gran parte del risparmio nazionale. Le anomalie dovute agli stretti rapporti fra le «banche miste» di deposito e di investimento e il sistema industriale avevano finito per coinvolgere anche la Banca d’Italia, in quanto essa aveva dovuto impegnarsi, a seconda di varie necessità, in determinate operazioni a sostegno degli istituti di credito più esposti.
A ben 2.590 milioni di lire ammonteranno le sovvenzioni concesse dalla Banca d’Italia nel corso degli ultimi due anni, ma esse non sarebbero bastate a turare le falle più vistose delle principali banche, oberate non soltanto da fortissimi immobilizzi e dal crollo dei titoli azionari in loro possesso, ma pure dalla inesigibilità di una parte consistente dei loro credito in seguito alle difficoltà in cui si dibattevano molte imprese. Neppure la promozione di alcune intese di cartello tra aziende dello stesso comparto per il coordinamento della produzione e la ripartizione del mercato era servita a contenere i danni; né sarebbe riuscita a sospendere la formazione nel giugno 1932 di vari consorzi obbligatori e una disposizione emanata sei mesi dopo, che subordinava la creazione di nuovi impianti industriali o l’ampliamento di quelli esistenti a una espressa autorizzazione governativa, con cui si intendeva impedire l’ingresso di eventuali concorrenti nei settori protetti e consorziati.
Nemmeno l’intervento messo in atto dal governo nel novembre 1931 con la creazione dell’Istituto mobiliare italiano per l’esercizio del credito a media scadenza con un capitale di 551 milioni, riuscì a sollevare le banche e le aziende dall’ingorgo in cui erano ormai invischiate.
L’Imi, che avrebbe dovuto concedere prestiti ipotecari responsabili in dieci anni ed emettere proprie obbligazioni sul mercato per procurarsi i fondi necessari non aveva potuto offrire alla maggior parte delle imprese un’effettiva alternativa al credito fornito dalle banche. In pratica l’attività dell’Imi si era dovuta limitare a un ristretto numero di operazioni (Terni e Italgas) e venne gestita in modo prudenziale. Restò inoltre scoperto il problema della salvaguardia dei depositi bancari esposti a tutti i rischi derivanti dal cumulo di perdite che stavano schiacciando i tre principali istituti Comit, Credito Italiano e Banco di Roma. E svanì anche l’illusione degli ambienti finanziari di giungere a un risanamento dei bilanci delle banche attraverso una svalutazione della lira. Il peggioramento delle condizioni patrimoniali degli istituti di credito e la forte esposizione della Banca d’Italia (pari a qualcosa come il 54% dell’intera circolazione monetaria) imponevano interventi ben più ampi.
Occorreva insomma tagliare il cordone ombelicale fra banche e imprese e mettere così fine una volta per tutte a quella che – per dirla con Raffaele Mattioli – da «una fisiologica simbiosi» si era andata trasformando lungo la strada in una «mostruosa fratellanza siamese».
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