Basta vanità, voglio l’arte vera
La quarantena ha trasformato la nostra vita quotidiana in “spettacolo” . L’auspicio è che ora le arti visive, nel mondo che seguirà la pandemia, si stanchino di se stesse. Che allentino la spettacolarizzazione trovando qualcosa di bello, puramente bello, da studiare, poiché la società costituita in immagini è solo un repertorio, un momento già morto
di Sofia Silva
2' di lettura
Educate alla letteratura della testimonianza, numerose persone stanno ritenendo opportuno fornire documentazione visiva di ogni pensiero o azione esorcizzante svolta in ambiente domestico. La quarantena si è trasformata in una di quelle capanne che bambini elettrizzati costruiscono in salotto tra una poltrona e l'altra, in cui si rifugiano, ridono, si eccitano. Cosa augurare al mondo delle arti visive durante questo lockdown che rigurgita spettacolo?
La società dello spettacolo, profetica opera che Guy Debord pubblicò nel 1967, testo fondamentale per più di una generazione d'artisti, dovrebbe gravare sulle coscienze come un ammonimento tradito: a cinquant'anni dalla prima edizione si è riusciti a spettacolarizzare l'invisibile, il virus. Lo spettacolo è un rapporto sociale tra le persone mediato dalle immagini, ed è uno strumento di unificazione; è il cuore dell'irrealismo della società reale, in cui ogni realtà individuale è divenuta sociale; è una rappresentazione, in cui il vero è un momento del falso.
Le arti visive del decennio appena trascorso sono state grandemente analitiche nei confronti della società gravida d'immagini: hanno amato studiarla e mapparne i fenomeni; hanno imbastito un pensiero critico sullo spettacolo offerto dal supposto potere e dall'altra sua faccia, il popolino, e per far ciò lo hanno analizzato e analizzandolo lo hanno incorporato. Esattamente quello che Debord sottolineava in tempi meno connessi: «Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare». Quando non si sono interessate alla società esterna, le arti visive hanno prodotto e rubricato la rappresentazione di una società interna a loro, codificando il nuovo spettacolo secondo modi e momenti coniati dalla propria zecca.
Il mio auspicio per le arti visive nel mondo che seguirà la pandemia è che in larga parte esse si stanchino di se stesse. Che allentino la spettacolarizzazione e sopiscano la propria adorazione verso il “già dato” dalla società, adorazione della decadenza, trovando qualcosa di bello, puramente bello, da studiare, poiché la società costituita in immagini è solo un repertorio, un momento già morto. Nell'unione simbiotica con lo spettacolo e il suo linguaggio, le arti visive hanno perso gran parte della propria attinenza alla realtà, hanno trascurato il sogno di una lingua nuova, in favore della fedeltà alle estetiche preesistenti in un formalismo edipico che fa costantemente il verso di ciò che vorrebbe analizzare e dunque superare.
In questi mesi dove tutto il mondo dà la caccia all'invisibile, le arti visive possono rallentare e finalmente realizzare che c'è niente da vedere; che il linguaggio dell'arte può non essere quello della società e che può presupporre un superamento della visione. Dagli insegnamenti della scuola, in molti ripescano le etimologie di crisi e catastrofe, che presuppongono una decisione definitiva, un ribaltamento totale dello stato delle cose; in costoro sorge una prospettiva giustamente tacitata dal pudore, ovvero che crisi e catastrofe porteranno il cambiamento. Se questa rivoluzione al negativo avverrà nelle arti visive, mi auguro che i primi a crollare siano la vanità, l'eccesso, e in definitiva il culto delle immagini intese come rappresentazione, affinché lo sguardo possa ritrovare quel dettaglio che è andato perso.
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